Vino: Domande & Risposte

bottiglie di vino con etichetta interrogativa

Le Domande e Risposte sul Vino sono apparse la prima volta sul blog di Liguvinario. Si trattava di quesiti e curiosità sul mondo del vino inviati dai lettori, cui Umberto Curti dava risposta.
Abbiamo pensato di ripubblicarli qui, in una forma di più agile consultazione, molto simile a una FAQ. Ovviamente avete la possibilità di richiedere nuove risposte utilizzando il link presente alla fine della pagina.

  • “bordolese” deriva dalla città di Bordeaux?

    Certamente. L’affascinante città di Bordeaux (Francia sudoccidentale) presiede ad uno dei territori storicamente più vocati al vino, dove allignano vitigni a bacca rossa quali i cabernet e il merlot, e vitigni a bacca bianca quali il sauvignon e il sémillon. L’aggettivo bordolese, peraltro, può riferirsi sia ad una bottiglia ormai diffusissima (cilindrica, spalla spiccata, collo non molto lungo), sia ad un “taglio” nel quale si assemblano mosti rossi (appunto da uve cabernet e merlot) vinificati separatamente, e tale prassi ha avuto successo un po’ ovunque nel mondo.

  • II primitivo è lo zinfandel?

    Varietà a bacca nera, forse giunse – dicono i genetisti – in Puglia dalle coste (oggi) dalmate e istriane, superando il braccio di mare adriatico. Se ne presero cura sovente i benedettini. Ha biologia precoce, e si vendemmia prima d’altri, donde il nome. Gli acini, di un bel blu lucente, donano un vino ricco d’alcol e di corpo, tannico ma rotondo, e speziato. L’istituzione delle DOC ha ingentilito le lavorazioni, in purezza, e acceso i riflettori su un vino che sino a ieri, in Mezzogiorno, tagliava vini più labili… Dal primitivo, effettivamente, origina lo zinfandel, così ben ambientatosi da lungo tempo in California (dove copre un decimo della superficie vitata) e in varie zone del nuovo mondo.

  • Cosa mi consigli col Cirò rosso?

    Cirò si riferisce a una DOC crotonese, nota e pregiata, quella terra è quanto mai vocata sin dall’antichità…
    Il rosso proviene da uve gaglioppo pressoché in purezza, il bianco da uve greco pressoché in purezza. A me quel che piace del gaglioppo – vitigno resistente e affidabile – è l’irruente forza, il corpo sorretto da acidità e tannicità consuete ad alcuni vini del Mezzogiorno d’Italia, che ne fanno un vino ricco, “balsamico”. Hugh Johnson lo ha non a caso definito “il Barolo del sud”. Te lo proporrei con carni alla griglia, pecora arrostita, piatti ricchi di sughi e umori, al limite anche selvaggina in umido…

  • Qualche dritta sul Bardolino?

    Sei sulla riva veronese del Garda. Una bella località che giustamente onora le proprie uve, i chiaretti, i novelli… Vini antichi ma versatili. La DOC Bardolino (DOCG il Superiore) è del 2001, aggiornamento del disciplinare 1968, da uve corvina, rondinella ed altre autorizzate per un max del 20% (ma max 10% a vitigno). Il Superiore ha indubbiamente una personalità più rilevante, che deriva da affinamenti protratti almeno 1 anno. Alcuni infatti lo abbinano ai formaggi stravecchi. Berrai bene e visiterai territori charmant…

     

  • Il Nobile e l’Abruzzo sono lo stesso Montepulciano?

    Premesso che Montepulciano (SI) è luogo fra i più magici della magicissima Toscana, debbo risponderti no.
    Il Nobile, millenario, e DOCG dal ’99, identifica un rosso toscano “regale”, vinificato almeno per il 70% da sangiovese, in zona chiamato prugnolo gentile, il resto delle uve sono il “presenzialista” canaiolo e sino a un decimo uve bianche, prassi che in passato riguardava il Chianti (oggi non più!). E’ un vino importante, da invecchiamenti, ma virtuosamente “rurale” e poco incline alle mode. Ottima l’evoluzione della qualità produttiva, tenuti anche presenti i prezzi al commercio quanto mai ragionevoli.
    Viceversa, il Montepulciano d’Abruzzo (DOC dal ’92 e DOCG dal 2003 sulle colline teramane) è un genotipo abruzzese che si dirige anche verso il Sud Italia. Vanta numerosi fan, è pur esso da invecchiamenti, io preferisco la tipologia rosso alla cerasuolo. Si vinifica in purezza ma ben lega con altri genotipi, fra cui ad esempio proprio il sangiovese. Nel complesso, è un bicchiere forte, generoso, che regala esperienze durature, va accompagnato anzitutto a piatti e panarde del terroir, fettuccine con ragù, carni ovine stufate, salsicce e frattaglie.

  • Che vini fanno sui Colli Piacentini?

    Questa è una storia che risale molto indietro nel tempo, addirittura ai pre-romani, ma io ti citerei volentieri personaggi come Alberto Scoto (condottiero, signore di Piacenza, nemico dei Visconti), Bartolomeo Colleoni (capitano di ventura del ‘400), e Paolo II (Papa Farnese) tramite il suo bottigliere di fiducia Sante Lancerio, i quali tutti ebbero una forte inclinazione per i vini del luogo di cui mi domandi. Cospicuo durante il tardo medioevo anche l’export verso la Francia…

    Impegno qualitativo e talento commerciale hanno permesso via via ai produttori d’accrescere il business, oggi la correttezza tecnologica e l’intraprendenza delle maison sono forse le doti che più caratterizzano questa DOC, che regala interessanti bottiglie, ora ferme ora spumantizzate, inconfondibili per profumo e dati gustativi. Gutturnio, Bonarda, Malvasia e Ortrugo sono i prodotti che periodicamente “sperimento” sulla mia tavola, si tratta in genere di vini schietti e versatili, che non creano particolari problemi quanto ad abbinamento…

  • Cosa mi suggerisci al ristorante, sull’isola d’Elba?

    Con nostalgia ricordo i corsi di tennis a Procchio, una vita fa. Ma bando agli amarcord. La DOC insulare propone vari vini (fra questi il vin santo Occhio di pernice, prevalenza sangiovese), i cui vitigni di base ti restituiranno sentori classici di Toscana. Trebbiano, ansonica (altrove detto inzolia), vermentino, ma anche moscato bianco… E poi, a fine pasto, guardando il mare, non sottrarti al “sacrificio” dell’Aleatico passito, è un duro lavoro ma qualcuno deve pur farlo… DOCG da tre anni, rosso dolce apprezzato da secoli, esso è aleatico 100%, le uve passite all’aria aperta si vinificano quando la curva degli zuccheri segna 30%, in pratica la selezione spietata fa sì che sette decimi del grappolo vadano persi. Respirerai così un profumo da meditazione, ma questo vino è ottimo anche con formaggi impattanti, pasticceria secca e panforti… Che splendore!

  • Che vino è il nerello siciliano?

    …proprio l’altra sera, che coincidenza, aprivo una bottiglia (esaltante) dell’azienda Firriato, e quella bottiglia forse ti “racconterebbe” più di tante mie parole. Il nerello non è un vino e non è solo in Sicilia. Si tratta di due vitigni a bacca nera, nerello cappuccio e nerello mascalese, presenti anche in Calabria. Il primo ha fogliami verdi che “incappucciano” i grappoli, il secondo forse ricava il nome dalla pianura di Mascali presso Catania. Fa’ attenzione perché sono entrambi “potenti” e vinosi, ma il mascalese è di solito più profumato, più tannico e più idoneo ad invecchiare. Con le vinacce del nerello si lavora anche un’ottima grappa.

  • Parliamo un po’ di tempranillo?

    …e volentieri! C’è il sole della Spagna in questo vino rosso, carico d’antociani, alcolico, pieno, speziato, duraturo. Che prende l’identificativo da un avverbio, temprano, legato forse alla maturazione precoce, ma vanta poi innumerevoli sinonimi. Origina si dice nella Rioja (secondo taluni la miglior area vitivinicola iberica), ma alligna bene anche altrove “consociandosi” per esempio all’onnipresente cabernet sauvignon, o alla famosa garnacha che ritrovi un po’ ovunque nel Mediterraneo.
    In Portogallo il tempranillo prende nome tinta roriz ed eccelle nel Douro, contribuendo fra l’altro alla produzione di Porto. Anche la Francia meridionale lo accoglie con ottime prestazioni, e la Sicilia, ma solo in talune zone. Dall’Europa è ripetutamente salpato verso le Americhe, sebbene sia sensibile alle muffe grigie, all’oidio… Quanto agli abbinamenti, beh opterai per cocinillo, filetti bovini, melanzane alla parmigiana, selvaggina brasata, o anche formaggi d’infinita struttura…

     

  • Mica male la lacrima di morro d’alba, eh?

    Concordo al mille per cento. Molti lo pensano piemontese (per via del toponimo alba) questo vitigno a bacca nera, vanto dell’area anconitana nelle bellissime Marche, assai trendy anche per la duttilità negli abbinamenti (salumi, zuppe, fettuccine al ragù…). La DOC – 2005 – lo utilizza nell’uvaggio almeno per l’85%, e comprende anche le versioni Superiore e Passita, con invecchiamento maggiorato ad un anno. Salutami le Marche, se ci passi, Ascoli Piceno, il Tronto…, io feci il CAR nel 1989 a Macerata e ne conservo un ricordo tenerissimo, città quieta, a misura d’uomo…

  • Ma fanno il nebbiolo anche in Sardegna??

    Yes, nella IGT Colli del Limbara (1995) è prevista anche una produzione di vini a base nebbiolo, io, da vecchio nebbiolista, ho curiosato e ne ho bevuto uno con piccolissime quote di sangiovese e di carigagiola (caricagiola). Di solito è un nebbiolo “semplice”, tuttora frutto di sperimentazioni enologiche, se rammento bene fu impiantato in Sardegna dai sabaudi… Quanto al caricagiola e ai suoi sinonimi, è – verosimilmente – vitigno autoctono gallurese, s’incontra anche in Corsica, somiglia al vermentino nero. Dà buone rese, che lo apparentano ad altri vitigni importanti nell’areale mediterraneo. Ama le regioni costiere-temperate ma si adatta bene a varie condizioni pedoclimatiche.

  • Qual è la tua opinione sul Timorasso?

    Lo adoro, il Timuràs (così lo chiama il mio rosticcere Valerio, nato da quelle parti). Talvolta accade che ci si ostini a recuperare vitigni che – guarda caso – la storia ha ricoperto d’oblio, ma questo non è certo il caso del Timorasso, la cui riscoperta, alcuni anni or sono, fu evento quanto mai fausto.
    Ti consiglio una gita nel tortonese (Tortona/Derthona compresa), in cerca di questo vitigno a bacca bianca che regala bottiglie dall’identità intensa, con significativi sentori di frutta secca, piacevole mineralità, un prodotto che in genere non teme affatto qualche anno d’affinamento.
    Gran parte del merito, come noto, va a Walter Massa, antica maison di Monleale (AL) che riserva grandi attenzioni all’autoctonia ed alla naturalità. Quanto agli abbinamenti, sbizzarrisciti coi flan di verdure, i tortelli d’erbe, i tagliolini con ragù bianchi, la terrina di coniglio, il pollo con le nocciole…

  • A Milano fanno il vino??

    Non proprio a Milano, ma poco lontano… Milano è un’ampia città ma con una piccola provincia. Un tempo, i suoi dintorni erano verdissimi, le fabbriche e le autostrade non avevano ancora mutato il paesaggio.
    Qualche anno fa, tuttavia, sono stato a Pantigliate, pochi km dalla metropoli, 6mila abitanti (in rapido ma costante incremento demografico), restando ancora abbacinato dalla bellezza dei luoghi. I vini di cui mi chiedi sono la DOC (2002) San Colombano al Lambro, che s’inoltra anche verso Pavia e verso Lodi.

    Il rosso, quasi l’intera produzione, è ovviamente croatina e barbera con una ridotta quota di uva rara.
    Il bianco, neanche un decimo della produzione totale, è chardonnay e pinot nero con eventuali altre uve non oltre il 15%.

    Ti consiglio, specie del rosso, la versione riserva, che abbinerai ai piatti del luogo, risotti, stufati, vedi tu se anche col gorgonzola (bada che in zona ci sono monasteri che ospitano i turisti, e cucinano in modo…divino). Del bianco viceversa la versione frizzante, ottima da tutto pasto, con risotto alla milanese, con pesci di lago, con fritture.

  • Soave è un vitigno?

    È anzitutto una bella località di circa 7mila abitanti in provincia di Verona, insignita della bandiera arancione. Il vino – bianco – è prevalentemente da uve garganega, e puoi apprezzarlo anche in tipologia spumante, rifermentato naturalmente. L’area è traversata da una “attiva” strada del vino, e le dinamiche aziende locali hanno, grazie a sforzi congiunti, conseguito 11 anni fa la DOCG per la versione Soave Superiore (stesse basi ampelografiche garganega). La produzione è abbondante, e questo vino ha il proprio punto di forza number one nella duttilità quanto ad abbinamenti, si beve bene infatti con antipasti, risotti con verdure e crostacei, pesce di lago e di mare, anguilla, asparagi con uova, crepes al formaggio, tacchino ai ferri…

  • Sono un fan di Gabriella Ferri. Che vini “cantava”?

    Nei suoi coinvolgenti stornelli “da osteria”, un po’ alla maniera del Belli, di Pascarella e di Trilussa, la compianta Gabriella Ferri, verace romana del Testaccio, preferiva (e si può ben capire) “er vino de li castelli che questa zozza società”…

    Alludeva certamente alle ruspanti bottiglie di quella che oggi è una DOC sulle colline di 23 comuni (province di Roma e Latina), i bianchi – nelle tipologie secco, amabile e frizzante – provengono da malvasia e trebbiano, i rossi e i cerasuoli – nelle tipologie secco, amabile, frizzante e novello – da cesanese, merlot, montepulciano e sangiovese.

    Se ami la campagna laziale e un certo tipo di vini, che mi piace definire da trattoria in senso elogiativo, approfondisci, mi raccomando, anche la DOC Frascati (un bianco perfetto sia con la pasta alla carbonara e sia con la coratella…) e la DOC Marino (piacevolissimo vuoi con l’amatriciana e vuoi con la porchetta o l’abbacchio d’agnello…).

  • Ti piace il Pignoletto?

    Festoso, un po’ modaiolo, da aperitivi in spiaggia a Rimini e Riccione questo bianco romagnolo, assai simile al grechetto, ormai molto apprezzato anche spumante. Calice da piade, tartine di pesce, ma anche da tortellini in brodo, pollo, formaggette… C’è dentro tutto il sorriso di una regione che non a caso attrae molti turismi.

  • Il Grignolino…

    Eppure questo antico vitigno – i cui acini contano molti vinaccioli, donde forse il nome – dà un vino delicato, giustamente tannico, e duraturo. Rischiò l’estinzione, furono ministri e re di fine ‘800 a “salvarlo” da un immeritato oblio. Un po’ scarico quanto a colore, e mai molto alcolico, garantisce piacevoli sentori di campo e frutti. Ricordo che tanti anni fa in un fantastico ristorante panoramico di Cremolino (AL), di cui non faccio il nome ma molti buongustai liguri-piemontesi hanno già capito…, il Grignolino accompagnava benone, con semplicità, tutte le sfilze d’antipasti del terroir, i salumi, i tajarin, i lessi coi bagnet…

    Spero che mia madre e mio padre adesso se li stiano gustando in paradiso.

  • Il brachetto è un vitigno aromatico?

    Sì, appartiene a quella “famiglia” dove incontri anche moscato, aleatico, malvasia, traminer… Mi piace quest’antico vitigno con cui – pressoché in purezza – nell’acquese ricavano un DOCG granato, muschioso, con sentori di rosa, dolce e “spumeggiante” sposo di tanti dolci, in primis le crostate di pastafrolla con frutti rossi. Se pensi che la fillossera l’aveva quasi estinto… Buon viaggio ad Acqui, amico mio…

  • Dove origina il sirah?

    Ne ho sentite di cose, circa il sirah, che voi umani neanche potreste immaginarvi, commenterebbe forse il mitico Rutger Hauer nella sequenza finale di Blade Runner, anno 1982… Alcuni ne situano le origini in Medio Oriente (la Persia felix), altri lo localizzano nell’area di Siracusa, donde poi avrebbe viaggiato verso la Francia (Rodano nord…) e infine sarebbe ritornato in Italia (Sicilia, ma pure Toscana), e avrebbe raggiunto esiti convincenti finanche in “Arghentina”, California, Australia, Sudafrica. Altri ancora lo descrivono come portato in Europa dai Crociati.
    La grafia stessa è controversa, sirah, syrah, shiraz… Nell’insieme, il vitigno – che predilige climi caldi e secchi – regala un rosso nobile, di carattere, pieno, speziato, astringente. Ieri i vini come oggi le uve, il sirah concorre inoltre ad “irrobustire” altre varietà.

  • Quando mi consigli il Lagrein?

    Dipende. Se lo bevi dunkle (scuro, e magari riserva) o se lo bevi kretzer (rosato). E’ delicato questo vitigno altoatesino – forse d’origine greca – , nei tempi che furono sappiamo da documenti ufficiali che si prediligeva il bianco. Qui e là ha poi attecchito anche nel Nuovo Mondo.
    Cerasuola è la vinificazione adatta ad alcuni salumi, ad alcune zuppe, ai canederli, ai risotti. Il dunkle chiede viceversa lonza suina, selvaggina, spezzatini in umido, formaggi di grande struttura e lunga stagionatura…
    Sia come sia, parlarne mi trasmette un’infinita nostalgia per Castelrotto (Kastelruth), paese di fiaba dove trascorsi le ferie dal 1997 al 2002, in un garni dalle cui finestre non scorgevo che praterie e dolomiti.

  • Sei fra gli adepti del chenin blanc?

    In effetti è stato infinitamente rivalutato questo bianco, provenienza la valle de la Loire (donde pineau de Loire). Delle sue origini si sa forse più in senso geografico che genetico, Molto duttile quanto ad adattabilità, s’è comunque ben ambientato in molti luoghi e non ultimo in Sudafrica, dove abbonda e dove è noto col nome di Steen (mi dicono peraltro che stia un po’ cedendo il passo ad altri vitigni).
    Gli abbinamenti variano, in quanto il vino si produce sia assai secco, sia assai abboccato, sia fermo e sia spumantizzato. In genere prediligilo con stuzzichini, crudité, sushi e pesce, carni bianche, formaggette fresche, sapori mai troppo rinforzati da spezie o sughi.

  • Est! Est!! Est!!! Ma che cos’è?

    Curiosa questa vicenda (a lode di trebbiani bianchi del Viterbese in uvaggio con malvasia), secondo la quale il coppiere di un vescovo intenditore, al seguito di Enrico V che dalla Germania calava nel 1111 a Roma per farsi incoronare dal Papa, segnava accanto agli ingressi delle locande la qualità dei vini che vi beveva… A Montefiascone non poté esimersi da segnare 3 volte, e con 6 punti esclamativi, la bontà di quel che gli proponevano… Sappiamo che il vescovo concordò assai col giudizio del suo incaricato, tanto da lasciare alla località (dove fu in effetti sepolto) un cospicuo lascito, a patto che ogni anno, per l’anniversario della sua morte, si versasse sul cenotafio una botticella del vino adorato… Tuttora una rievocazione tiene viva in paese la memoria di quei fatti.
    Il vino è assai piacevole, luminoso nei colori, ora sapido ora abboccato. Molto duttile quanto ad abbinamenti, sposa starters, pesci e crostacei, spaghetti alla carbonara, tortelli di magro, verdurine fritte (la versione spumante). E’ DOC dal 1989.

  • Cos’è il Lugana?

    E’ una magnifica DOC (’98) che individua un bianco del Garda meridionale, terreni notoriamente argillosi. Si tratta peraltro di “normalissimo” vitigno trebbiano di Soave. Il Lugana lo utilizza pressoché in purezza. Si vinificano anche una versione superiore (un anno in più e almeno 12°) ed una spumantizzata, sia metodo classico sia charmat. Io con Dedo lo scopersi – se non ricordo male – al ristorante “Le Arche” di Verona nell’ormai lontano 1989. Ti consiglio abbinamenti con tartine e quiche, pesci di lago, crostacei, risotti alla parmigiana, torta di cipolle, formaggette…

  • Riscoprono vitigni in Friuli?…

    Ti rispondo di sì ma a mia volta – confesso – vorrei saperne di più. Certamente stanno lavorando con alacrità intorno al pignol, o pignolo (pignùl in dialetto), un bacca nera dagli acini di dimensione minima e strettamente coesi l’uno all’altro, stipati. Antico antico, già secentesco, amante dei terreni isontini, questo vitigno (nient’affatto parente dei pinot) dona vini notevoli, intensi, speziati, da accompagnare a piatti di compiuta struttura…

  • Sono una “fan” del petit verdot. E tu?

    Lo conosco, ma non ne sono un fan. E’ un bordolese a bacca nera e ha alcune peculiarità quanto a maturazione che lo rendono “impeccabile” solo nelle annate migliori. Non da oggi alcuni dei grandi “Chateaux” ne coltivano qualche filare perché il petit verdot presenzia con buoni esiti quegli assemblaggi che necessitino di aromi speziati, colore e corpo pieni, longeva vivacità. Vanta talora tannini piacevoli e tondi. Nel Lazio, grazie al clima (così come in Maremma, Grecia, California…), è lavorato in purezza, il mercato sta pian piano notandolo…, non ti so dire se apparterrà alle predilezioni continue del pubblico, quelle che decretano i veri successi. Di sicuro non dà problemi negli abbinamenti, anzi: paste al sugo, risotti, arrosti, pollame in umido.

  • Stasera col gulasch un marzemino?

    D’accordo, anche se il gulasch è un piatto invernale, in primavera abbinerei meglio tagliolini con ragù di funghi, coniglio in umido con le erbe, qualche taglio di carne lessato, salumi e formaggi a media stagionatura.
    Il Marzemino è cosa nota e apprezzata da tanti secoli, autoctono, ha cento sinonimi (alcuni errati), in Italia attualmente alligna in 5 regioni, io ti consiglio il Trentino e Breganze in Veneto.
    Un colore piacevolmente carico, quasi cupo, precede un naso finemente floreale-fruttato (violetta…), e al gusto il vino è pieno, con tenore alcolico adeguato ma tannini non irruenti. Molto del suo valore contenutistico si deve al prof. Attilio Scienza, enologo che ha profuso in loco ingegnosissime energie. Itinerari cultural-paesaggistici da non perdere incorniciano questo vitigno, che infine a Conegliano trova anche una vinificazione da uve surmature, il passito di Refrontolo, calice a tulipanino da meditazione…

  • Saint-Emilion, un nome una garanzia?

    AOC bordolese della zona gravitante attorno a Libourne, porto sulla Dordogna, in Gironda, questo vino nasce su una terra vocata (calcarea) e ricca di storia: vi si rifugiò l’intellettuale Ausonio ai prodromi delle calate barbariche, fu poi piacevole sosta per i pellegrini diretti a Santiago de Compostela, cui non si negava un tonificante bicchiere… Oggi gli appezzamenti a vigna coprono circa 6mila ettari pertinenti a 9 Comuni, sostanzialmente vitigni merlot e cabernet franc, assai meno cabernet sauvignon (che qui non maturerebbe a dovere).
    Senza eccedere in dettagli e tecnicismi, sappi che dal 1955 funziona un “classement” in 4 livelli che viene messo a punto ogni 10 anni e che talora suscita controversie. La fama – e il prezzo – dei Saint-Emilion risiedono principalmente nello stile sagace, elegante e austero con cui in loco si vinifica, è arduo infatti trovare nel mondo espressioni equivalenti di merlot e cabernet.
    L’abbinamento esige evidentemente carni rosse, tournedos alla Rossini, brasati, cacciagione, formaggi très affiné (meno bene gli erborinati)… Non ti resta che goderti un viaggio fra borghi medievali e colline verdeggianti, respirando natura e profumo di rose all’inizio dei filari.

  • In val d’Aosta ho comprato del Cornalin. Approvi?

    Adoro alcune vette “aspre” della val d’Aosta, incredibile pensare che una regione del genere possa regalare anche vini (e DOC), sulle fasce terrazzate il clima è comunque rigido malgrado i muretti a secco, che “rilasciano” il calore assorbito grazie all’insolazione diurna… A Morgex, addirittura, i vigneti sono i più elevati d’Europa, con pendenze che rendono davvero eroico, come in Valtellina e Liguria, lavorare questi micro-poderi. La viticoltura è antica, fu salvata dai monaci durante il medioevo, ma non scampò alla fillossera. Investimenti degli anni ’60 hanno permesso nuove tecnologie e nuove concezioni. La prevalenza in valle è per i vitigni a bacca rossa (12 gli autoctoni), mentre solo 1, il blanc de Morgex detto anche prié blanc è a bacca bianca. Fra i vitigni a bacca rossa, il cornalin (detto humagne rouge nel Vallese-CH) origina vini di buon carattere, che sposano risotti, salamelle, fegati di coniglio…

  • Bevi spesso Malbech?

    …confesso che sì. Anzitutto per l’amore che nutro nei confronti dell’Argentina. Poi per il legame che unisce Ligucibario a un delizioso sito web in castellano-genovese creato dall’amico Alan Gazzano a Buenos Aires (https://www.genoves.com.ar/). Infine perché m’intriga la vicenda di questo vitigno bordolese un po’ finito nell’ombra nella madrepatria, il quale si prende una sonora rivincita in Argentina (Mendoza!) e un po’ anche in Cile.

    Sulle origini del nome non si è mai giunti a chiarezza definitiva, v’è chi dice che derivi dal vignaiolo che per primo lo coltivò nel Médoc. In Italia – a mio parere – lo incontri al meglio in Veneto/Nord Est, e ti assicuro che ci sono aziende le quali stanno ormai puntando sul malbech a scapito d’altri bordolesi più celebri. Ha un bel colore e calore questo rosso, di solito il sudamericano regala rotondità e intensità, con chiari sentori fruttati, di prugna matura. Lo abbinerai a salumi, bigoli col ragù d’anatra, grigliate di carni bianche e rosse, arrosti.

  • Ok il Malbech, ma il Carmenère?

    Forse, addirittura, io preferisco il Carmenère al Malbech. Sono contento di quest’interesse dei miei lettori per i bordolesi trapiantati in America Latina, il carmenère è vitigno che onora il Cile, le Ande, ma anche più a nord la California, là non patisce la “colatura” (rari acini) che lo affliggeva nel Vecchio Mondo, un po’ a causa del clima, un po’ a causa dell’impollinazione. Patì, beninteso, anche l’arrivo della fillossera.
    Origina da conquiste e intuizioni romane lungo le coste dell’Europa orientale. In Italia oggi regge bene in Veneto e Friuli, ed è sempre più che leale negli uvaggi. Alla fine di tanti viaggi, ha un bel rubino nel bicchiere, una bella struttura e un bel tenore alcolico, con sentori vegetali che via via virano verso le spezie. Io lo preferisco a tanti Merlot e lo abbino – in linea di massima – ai piatti preferiti di mia moglie, la sciura Luisa buongustaia, ovvero i salumi, i roastbeef e i filetti di bovino.

  • Condividi il successo del Morellino?

    Ha fatto il botto anche fuori d’Italia, in questi anni, un DOCG (2006 vendemmia 2007) che comunque vanta lignaggi nobili, piazzato ben al centro della Toscana, le colline maremmane, quelle dei bùtteri. Da vino della mensa “contadina”, sposo di ricette rurali, è asceso, grazie alla sagacia dei più evoluti produttori, a bottiglia elegante, che riassume molte delle qualità del sangiovese (in uvaggio sta minimo all’85%).

    Tutelato da un consorzio, questo vino oggi ti dona agli occhi un rubino che sfuma in brillantezze, al naso una pungenza piacevole, sottile, al gusto un calore asciutto, con tannini non aggressivi, e sentori di frutti rossi. Scegli l’austerità del Riserva (24 mesi d’invecchiamento per metà in legno) tutte le volte che abbini stufati dalla cottura “paziente”, roastbeef e grigliate con salse, frattaglie, cacciagione.

  • Un bianco “easy” in Emilia?

    Siccome ho già trattato del Pignoletto, eccoti allora l’Albana. L’etimo è incerto, ma si suppone una “ascendenza” romana. Profumo di frutti, e palato con lieve amertume. La DOCG romagnola fu nel 1987 la prima docg di bianco in Italia (non tutti però furono d’accordo). Di Albana effettivamente se ne produce molto, e il posizionamento non è di fascia elitaria, però è un vino che sorride come la regione di appartenenza, assai duttile quanto ad abbinamenti, e le curatissime versioni Passito Riserva contano non pochi estimatori… Prova il secco con antipastini, finger food, brodetti di pesce, petti di pollo saltati in padella con verdure (senza pomodoro), alcuni formaggi… E il passito “méditalo” con pasticceria secca, ciambelle con confettura di frutti a polpa bianca…

  • Sono pugliesi i migliori rosé d’Italia?

    E’ sempre temerario attribuire in assoluto la qualifica di “migliore” a qualcuno o a qualcosa. Certamente i rosati di Puglia vantano tanti estimatori, me fra questi. In particolare ti allerto circa la DOC Matino, nel leccese, dove vinificano in cerasuolo il negramaro (minimo 70%), con eventuali aggiunte di sangiovese e/o di malvasia nera. Berrai bottiglie favolose (l’area è vocata sin dall’antichità, e il Consorzio nacque nel 1899), da abbinare duttilmente ad antipasti, guazzetti di mare, lasagne al forno con verdure, rattatuie, pizza coi funghi, carni bianche anche “alla valdostana”… Se esplori la Puglia, non dimenticare il centro storico di Lecce!

  • Bevi succo d’uva?

    Sì, a volte anche prodotti da viticoltura biologica. Il succo d’uva possiede infatti molte virtù… Fra l’altro è analcolico in quanto si evita la fermentazione del mosto, quella che trasforma in alcol gli zuccheri. Occorre ovviamente utilizzare uve sane, ben mature. Questa bevanda poi è indicatissima per chi non tollera la buccia degli acini e i vinaccioli.

  • Conosci Monica?

    …sì, e mi piace molto. Non è infatti solo il nome della mia miglior amica (una fulminata pegliese DOC…), ma anche di un antico vitigno sardo a bacca nera, forse ma sottolineo forse di provenienza iberica – “morillo” – , noto anche sull’isola con vari sinonimi. Esso è alla base di vini secchi o amabili, anche frizzanti. Il secco, nella tipologia superiore (che prediligo) dà note intense, è un vino asciutto, con begli spiriti, duraturo, con tannini che via via s’ingentiliscono… Il Monica di Sardegna è DOC dal ’72 con successive modifiche, il Monica di Cagliari lo è dal ’79 in sostituzione del ’72. Quest’ultimo si produce anche nella tipologia liquoroso (si fregia dell’appellativo riserva dopo 2 anni di invecchiamento dei quali 1 in rovere o castagno).

  • Mi hanno regalato un Ghemme. Com’è?

    Così “gioco in casa”, io sono un vecchio nebbiolista e il Ghemme DOCG (1997) è nebbiolo, o biotipo spanna che dir si voglia, per almeno il 75% dell’uvaggio, il resto è eventualmente uva rara, che conferisce morbidezza, e/o vespolina. Questo vino antico, e caro ai letterati (Mario Soldati in primis) ha tutti i pregi del nebbiolo, invecchiato 3 anni (4 il Riserva), identitario, duraturo, trova per compagni il filetto, la carne allo spiedo, lo stracotto, gli spezzatini in umido, la selvaggina, alcuni formaggi stagionatissimi… Se càpiti a Novara, ti consiglio una sosta al ristorantino “Monteariolo”, nel centro storico, che propone un validissimo menu-degustazione con le vere tipicità locali, fra cui paniscia e tapulòn (salutami la cortese proprietaria).

  • E’ Sicilia la patria del nero d’avola?

    Avola è una località del siracusano, presso Noto e Pachino, celebre sin dall’antichità per le mandorle. Il vino di cui mi chiedi, molto apprezzato dagli anni 70-80 (e sbarcato anche nel Nuovo Mondo), origina dall’omonimo vitigno. Nel bicchiere ti dona un bel rosso tra la ciliegia e il porpora, in bocca ha spiriti più accentuati degli acidi, le note sono di prugna e spezie, nel complesso possiede una struttura che invecchia e affina bene.
    In passato vino da taglio, oggi molti produttori lo coltivano accuratamente ad alberello e talora lo uniscono in uvaggio al sirah, è intrigante la liaison con un vitigno forse indigeno forse invece proveniente dalla Persia, e chissà quando accadde… fai comunque in modo di abbinare il nero d’avola a piatti di buon impegno gustativo, alle carni rosse alla griglia, a verdure in rosso e lungamente stufate, ai formaggi molto saporiti e invecchiati…

  • Ansonica o Inzolia?

    ansonica in Toscana (c’è una DOC dal ’95 Costa dell’Argentario, nel più magico grossetano), inzolia o insolia in Sicilia (vi giunse tramite la dominazione normanna?), io di solito mi riferisco alla seconda denominazione, per origine storica. A bacca bianca (acini radi e resistente alla siccità), dona vini piacevolissimi, dal versatile abbinamento – “aperivino” coi classici finger food meridionali – , e sovente è vino base per il vermouth. Che a propria volta è una vinificazione speciale, ricca d’aromatizzanti, amaricanti e caramello, nata e impostasi soprattutto in Piemonte fra ‘700 e ‘800, divenuta poi moda sabauda e internazionale e apertasi a vari stili…

  • Stravedo per i riesling. C’è da stupirsi?

    Ci sarebbe da stupirsi del contrario! Penso tu alluda al renano, davanti al quale ci possiamo solo inchinare e che differisce dall’italico. Gloria della Germania (Reno, Mosella, Palatinato, Wuerttenberg…), alligna “da dio” sin dagli albori anche in Alsazia, terra che a tratti – compresa gran parte della seconda guerra mondiale – fu tedesca…
    In Italia il riesling ha trovato terreni e climi congeniali nel Nord-Est e qualcosa anche nell’Oltrepo Pavese, area ampelograficamente frastagliata. Via via questo vitigno sta in generale affascinando anche le Americhe e l’Oceania, che esportano verso le nostre enoteche qualche bottiglia ormai più che pregiata e con simpatico rapporto q/p.

    Grande rivale dello chardonnay, nel miglior riesling – non di rado longevo – devi con la vista l’olfatto il gusto trovare in successione il paglierino con riverberi verde-cinerini, la frutta (prepotentemente gli agrumi), la mineralità “cult” del trimetildiidronaftalene, la sapida freschezza acida ma anche l’alcol morbido… Il riesling del resto si presta alla spumantizzazione e all’icewining. Infiniti gli abbinamenti, dalle zuppe alla selvaggina ai formaggi, scegli tu…

  • Cos’è il makomako?

    Quel che ti so dire è che si tratta di una bella pianta arbustiva, autoctona in Nuova Zelanda. Ha piccole bacche rosso cupo che dopo l’invaiatura s’impiegano per ottenere un “vino”. Credo che Aristotelia Serrata e wineberry siano due vocaboli che ti aiuteranno ad approfondire la ricerca, portandoti nel Nuovo Mondo… Da parte mia, io più che questo, della materia, non conosco.

  • Ma il Torgiano è sangiovese?

    …che godimento, il Torgiano rosso! Se ti riferisci alla DOC “perugina” – anno di conferimento 2003 – essa comprende diverse tipologie di vitigni in purezza, nonché il bianco (trebbiano 50-70%) e il rosso e il rosato (appunto sangiovese per almeno il 50%). Se ti riferisci alla DOCG rosso riserva – anno di conferimento 2003 – si tratta di sangiovese per almeno il 70%, con invecchiamento 3 anni di cui almeno 6 mesi in bottiglia. Berrai un rubino vinoso, equilibrato, giustamente corposo e alcolico, il cui successo è strameritato e risale in gran parte all’alacrità di Lungarotti. Non fallire gli abbinamenti!

  • Il Moscato di Trani cos’è?

    …anzitutto è un dono di Dio. Poi è una DOC (1987 ex 1974) profondamente pugliese, una dozzina i Comuni coinvolti, da uve moscato bianco quasi in purezza (minimo 85%). Viene vinificata anche la versione liquoroso, più invecchiata e più alta d’alcool. Alcune annate sono strepitose. Assapora questo dono o come vino da meditazione, o come compagno di formaggi stravecchi, di marzapane e di frutta secca… Meglio ancora assaporalo, in Puglia, la stessa Trani è una località d’atmosfere suggestive.

  • A cosa si deve l’odore sgradevole di tappo?

    Premesso che ormai molte aziende si stanno rivolgendo anche ad altri materiali, l’odore è dovuto a tappi aggrediti da una muffa (Armillaria Mellea) parassita delle querce. Il tricloro-anisolo che si sprigiona tuttora affligge un 2-5% della produzione commerciata. Un tappo può esser malato e nuocere al vino anche se esternamente non puzza, perché l’Armillaria vi si cela internamente.
    Le precauzioni consistono nella raccolta delle plance di corteccia ad un’altezza di almeno m 1 da terra (il fungo attacca di solito le radici e le parti basali), nell’evitamento del cloro durante manipolazione e stoccaggio della corteccia, nella sua conservazione senza umidità e senza contaminazioni.

    Il rimedio, non molto e comunque non sempre efficace, viceversa consiste(va) nello stappare le bottiglie, aggregare il contenuto in un recipiente e trattarlo con olio di vaselina (consentito solo per vinificazione casalinga!) o carbone deodorante. Per quel che mi riguarda, quando avverto nettamente l’odore tendo a non bere il vino “contagiato”, e – ove utile – mi annoto la casa produttrice per verificare in seguito se l’incidente dovesse ripetersi.

  • Col Riesling si cucina?

    …io preparo ad esempio un tacchino al Riesling, ricetta facile, “francesizzante” non troppo calorica, che sta tranquillamente dentro un’oretta di tempo e che può eseguirsi anche col pollo. In pratica pre-imposti tagliato sottile un classico soffritto magari con aggiunta di porro, cuoci alternativamente polpa di tacchino già spellata e pulita e verdure (sfumandole con vino), e alla fine la polpa termina di cuocere nel fondo di cottura delle verdure. Si possono infine aggiungere funghi e broccoli (sbollentati e saltati nel burro) e impiattare guarnendo con salse alla panna. Non esagerare né col sale né col pepe. Il vino abbinato sarà ovviamente Riesling…

  • Cos’è un “incrocio”?

    Non è l’intersezione di due vie o strade… E’ viceversa la fusione di due vitigni (naturalmente della specie Vitis Vinifera Sativa) da cui scaturisce un ibrido. Un centinaio di anni fa, peraltro, si utilizzò intensamente la pratica dell’incrocio per le uve da tavola (eccezion fatta per l’uva Regina e l’uva Sultanina), poichè l’ibrido che ne origina rappresenta un “progresso” genetico e dà buoni risultati. Quanto al vino, si sono rivelati alquanto interessanti il Muller-Thurgau (riesling incrociato con chasselas) creato nel 1882 da Hermann Muller di Thurgau, il Rebo (merlot incrociato con teroldego) dal nome dello sperimentatore Rebo Rigotti, i vari Incrocio Manzoni creati appunto dall’agronomo Luigi Manzoni (1888-1968) negli anni ’20 e ’30 del Novecento e affermatisi nel nord-est d’Italia, il cosiddetto Incrocio Terzi (barbera incrociato con cabernet franc) che si deve al vigneron Riccardo Terzi operativo nella Lombardia bergamasca e bresciana, il cosiddetto Incrocio Bruni (sauvignon incrociato con verdicchio) che si deve all’esperto di vitigni Prof. Bruno Bruni e che ha riscosso un certo interesse nell’Italia centrale – Bruni nacque nelle Marche – , il Kerner (schiava grossa incrociata con riesling), un’idea di August Herold risalente al 1929 e lavorata in Trentino-Alto Adige, il cui nome, Kerner, è un omaggio al poeta svevo d’inizio Ottocento…

  • E’ consigliabile la dieta di sola uva?

    Non sono un dietologo né un nutrizionista, ma confesso – a puro titolo personale – che le diete e le terapie “monoalimento” mi hanno sempre lasciato perplesso. L’uva destinata al consumo, ovvero cosiddetta da tavola, è un cibo zuccherino (il fruttosio prevale sul glucosio), dal sapore dolce, diuretico grazie al contenuto in potassio, ma controindicato per chi ad esempio soffra di diabete. Io suggerisco di fare attenzione e di evitare qualsivoglia moda “estiva” che – col pretesto di depurare o di riequilibrare – induca a nutrirsi di un unico alimento, perché ogni persona differisce dalle altre e quindi un regime (come dicono i francesi) deve costruirsi su di una serie d’analisi ematiche e su di un costante supporto specialistico. Sì dunque alle buone uve italiane come fine del pranzo o come merenda gustosa e dissetante, no – questa è la mia opinione – al resto. E domande di questo tipo rivolgerle sempre ai medici, i soli in grado di fornire risposte esaurienti e personalizzate…

  • Negli Champagne è importante controllare il perlage di bollicine?

    L’effervescenza di Champagne, spumanti e vini frizzanti, ovvero il perlage (la “catenella” di bollicine d’anidride carbonica che salgono in superficie quando si versa il vino), reca con sé gli aromi e – se copioso, duraturo, con perline piccole e veloci – è un indizio di buona qualità.

  • La cantina umida nuoce al vino?

    Nient’affatto, anzi al vino nuoce l’ambiente secco. In cantina, coricando tutte le bottiglie su scaffali rigorosamente di legno – dal basso all’alto spumanti, bianchi, rosati, rossi… – , occorre garantire temperature il più possibile costanti, fra 10 e 15°, e un’umidità del 60-70%, perché un ambiente secco nuoce ai sugheri, mentre un ambiente ancora più umido e mal ventilato gioverebbe a funghi e muffe – responsabili di fetori assai noti – nonché rovinerebbe le etichette (l’ideale sarebbe dunque un locale sotterraneo, ricavato nella roccia o rivestito con pietra o mattoni, e con pavimento a strati con ghiaia o con un battuto di cemento grezzo).

    Fa’ attenzione infine anche alle vibrazioni, agli odori (formaggi, salumi, vernici, lucido da scarpe, detersivi…), e alla luce, quest’ultima condiziona negativamente i vini più delicati (spumanti, bianchi, rosati) e/o confezionati in bottiglie trasparenti, tanto da imporre talvolta una fasciatura di quelle bottiglie, assai “vulnerabili”, con carta o alluminio. La luce dunque sia bassa, schermata, mai il neon!

  • Ho sentito parlare di aromi primari, secondari e terziari. Cosa significa?

    Si dicono primari (o varietali) quegli aromi che provengono direttamente dalla vite, cioè dal tipo di pianta che originò l’uva vendemmiata. Secondari sono gli aromi dipendenti dai processi di vinificazione, cioè dalle modalità con cui si è “prodotto” via via il vino. I terziari infine scaturiscono dall’invecchiamento e dal tempo in cui successivamente il vino permane e s’affina nella bottiglia.
    Queste tre tipologie di aromi derivano dunque da fasi in sequenza: il vitigno in vigna, la lavorazione, infine l’elevazione che comincia in botti ecc. e termina in bottiglia sino al momento della beva.

  • Nell’uva predomina il fruttosio o il glucosio?

    Il succo che si ricava dagli acini d’uva diviene vino attraverso una fermentazione che trasforma in alcol etilico gli zuccheri (glucosio e soprattutto fruttosio). In genere, glucosio e fruttosio rappresentano il 15-30% del mosto; da 100 g di zucchero se ne ottengono circa 51 di alcol, con un rendimento volumetrico del 65,5%.

  • Il vino passito è un vino liquoroso?

    No. Il vino passito è semplicemente ottenuto da uve lasciate surmaturare (in pianta, su graticci, ecc.). Vigne vecchie, grappoli sani, il passito non è una vinificazione cosiddetta “speciale”. Pensa a Pantelleria, allo Sciacchetrà delle Cinque Terre… Il vino liquoroso, viceversa, intuizione inglese, è un vino fortificato da un’aggiunta d’alcol, o da un composto, acquavite, mosto disidratato…, che lo stabilizza. Lo distingui infatti per l’accisa rosa applicata sul tappo. Vino zuccherino, conta fra i suoi campioni il Porto, lo Sherry…

  • Cos’è il vino verde?

    Il vinho verde (l’espressione è made in Portugal) è un prodotto di facile ma piacevole beva alquanto diffuso – appunto – in Portogallo. S’ottiene a nord, nella regione del Minho, con varie uve còlte acerbe, e va consumato giovane e fresco, come un novello, in abbinamento ad insalate e pesci, comunque piatti non strutturati. Malgrado il nome, può anche esser vinificato in rosso. Gradazione 9-11°, di solito propone una qualche effervescenza, che ne fa anche un garbato aperitivo. La pulcianella fra le bottiglie può essere la sua sposa perfetta.

  • Durante una degustazione hanno parlato di durezza e morbidezza. Non ho ben capito…

    Talvolta chi s’intende di vino non necessariamente è persona idonea a spiegarlo, l’insegnamento è un’arte, no?
    La morbidezza del vino è un’esperienza (piacevole…) che la bocca vive allorché il prodotto contenga una serie di componenti fra cui, in primis, glicerolo (un polialcole derivato dalla fermentazione alcolica), zuccheri, alcoli. Un vino risulta pertanto pastoso, morbido, abbastanza morbido, poco morbido, spigoloso – e quest’ultimo aggettivo “dice” tutto – .
    Quanto alla durezza del vino, essa è viceversa dovuta ad una serie di componenti fra cui gli acidi, i sali minerali, i tannini. Se significativa, impatta in bocca provocando ovviamente sensazioni di freschezza ma di acidità ove in eccesso, di sapidità ma di salato ove in eccesso, di tannico ma di astringente ove in eccesso…

  • Perché alcuni vini sono preceduti dalla parola chateau?

    …”castello”, a partire da Bordeaux individua alcune aziende vinicole, con l’importante eccezione dei castelli Chalon e Grillet che sono viceversa denominazioni d’origine (AOC). La cosa rilevante, per il consumatore, è che il vino di punta prodotto da queste aziende bordolesi, chiamato “grand vin”, è contraddistinto dal nome dello chateau medesimo. Quanto a Chalon e a Grillet, nel primo caso la produzione è il celebre vin jaune (vino giallo), pochi ettari di vitigno savagnin, nel secondo si tratta di una sottozona dell’AOC Condrieu, circa 135 ettari lungo il Rodano, là il vino è da uve viognier.

  • Cosa sono i vitigni internazionali?

    Sono quei vitigni che meglio si sono adattati ai climi e ai terreni di molte aree del mondo (comprese quelle extraeuropee, dove praticamente non esisteva il concetto di vitigno autoctono), garantendo un po’ ovunque vini apprezzabili e apprezzati. I più noti e diffusi sono i cabernet, il merlot, i pinot, la garnacha, il sirah, lo chardonnay, il sauvignon, il riesling… Non pochi sono originari del bordolese, zona da cui provengono anche il malbech diffusosi in Argentina e il carmenère diffusosi in Cile.

  • Cru e di Cuvée in Francia: cosa sono?

    Cru indica (anzi, individua!) un vigneto pregiato. Alla parola può anteporsi “grand” o “premier” in funzione del livello riconosciutogli nell’area di pertinenza. Ad ogni modo, in concreto, un cru è sempre una zona “vocata”, un insieme di viti che storicamente – per terreno, esposizione – donano vini eccezionali.
    Viceversa, cuvée (in francese “cuve” è un tino) indica soprattutto il mix di vini fermi con cui ogni maison realizza il proprio Champagne – tali vini, come noto, rifermenteranno in bottiglia secondo il metodo Champenoise -

  • E’ possibile raffreddare o riscaldare celermente un vino?

    “Celermente” è un avverbio che in questo caso potrebbe rappresentare per il vino un inopportuno choc termico. Diciamo che ove occorra abbassare la temperatura di una bottiglia, il sistema migliore è immergerla in un cestello contenente acqua, ghiaccio e sale. La glacette infatti si limita a mantenere le temperature, ma non le può abbassare. Stanno uscendo in commercio, peraltro, anche nuovi “vestiti” refrigeranti – sempre più efficaci – dove infilare qualche minuto le bottiglie. Quanto al riscaldare un vino rosso troppo freddo, l’unica strategia consiste nel fasciare la bottiglia chiusa con un sacchetto di plastica integro, e quindi calarla per una decina di minuti max in acqua tiepida a 25°. Attenzione a non far entrare l’acqua nel sacchetto. La temperatura del vino salirà dolcemente e l’etichetta stessa non verrà rovinata.

  • L’estratto secco, cos’è?

    Molti anni fa un contadino, di cui stavo visitando la cantina, lo definì come la “masticabilità” del vino. In effetti, è l’insieme solido che residua al termine dell’evaporazione delle sostanze volatili (acido acetico, alcol, acqua)…
    Nei rossi importanti, di gran corpo e struttura, può addirittura attestarsi intorno ai 30 g/litro. L’estratto secco, come ovvio, è oggetto di valutazione internamente ai protocolli disciplinanti le DOCG e le DOC.

  • Perché molte aziende si ostinano ad impiegare tappi di sughero?

    Abbiamo già trattato il tema tappi e le problematiche (armillaria mellea) derivanti dall’utilizzo di sughero. Ma le aziende che prediligono questo materiale, la corteccia del Quercus Suber, non perseguono un atteggiamento banalmente tradizionale o elitario. Malgrado oggi combatta contro molti concorrenti – silicone, plastica, vetro, corone d’alluminio… – , il tappo di sughero si conferma infatti leggero, resistente, impermeabile, elastico, inerte…, v’è da augurarsi che questo legno non scarseggi mai.

    Nel giugno 2006, durante un convegno a Logrono (Spagna) su vite e vino, ebbi modo di ascoltare numerosi punti di vista scientifici ed “estetici”. Emerse che il tappo di sughero “corrisponderebbe” nell’immaginario del mercato al vino ben conservato, rituale, naturale, sicuro e sostenibile, mentre gli altri tappi rappresenterebbero un passo avanti solo nei confronti del sughero (rischioso) d’infima qualità, o per chiudere bottiglie commerciali che vanno bevute giovani…

  • Le radici della vite scendono molto in profondità nel terreno?

    La vite possiede radici principali, che si sviluppano nei primi tre anni a fini di sostegno e penetrano i primi 30-35 cm di terreno. E di radici di conduzione, sia orizzontali che verticali, da cui si dipartono radici dette assorbenti, che periodicamente si rinnovano e giungono a 20-25 cm di profondità. Esistono però casi in cui le radici raggiungono i 3 m di profondità, crescendo così in relazione a vari fattori specifici (portinnesto, tipo di suolo, condizioni climatiche…)

  • L’Italia è il Paese europeo più vitato?

    Malgrado le devastazioni ottocentesche della fillossera, l’Europa tuttora detiene circa il 60% della viticoltura mondiale. La Francia rappresenta verosimilmente il produttore leader di vino, sùbito seguito a ruota dall’Italia, poi dalla Spagna (ecco il Paese europeo maggiormente vitato) e dagli USA (il Paese extraeuropeo maggiormente vitato). Più distanziati Argentina, dove ha attecchito alla grande il malbech francese, Cina, Paese dalle enormi potenzialità, infine Australia e Sudafrica.
    Malgrado un recente e costante rallentamento dei consumi, in Francia e in Italia si bevono oltre 50 litri annui di vino pro-capite. Il vitigno da vino più coltivato (rilevazioni ISTAT, anno 2000) è il sangiovese – principe del Chianti, del Brunello, del Morellino… – , 70mila ettari in 17 regioni e in 63 Comuni, presente in 158 DOC, quindi il catarratto bianco comune, il trebbiano toscano, il barbera, il montepulciano, il moscato. Come si vede, Toscana e Piemonte recitano la parte del leone.

  • Un vino matura mentre s’affina?

    Invecchiamento, maturazione, elevazione, affinamento, occorre precisare il senso di una terminologia generale che talvolta disorienta il neofita. In linea di massima i primi 3 vocaboli si riferiscono, finita la fermentazione, al vino ancora dentro il legno (o l’acciaio, ecc.), l’ultimo al vino già dentro la bottiglia. Negli ultimi anni, invecchiamento tende a cadere in disuso, allude al momento dal quale il vino prende a decadere. Si preferisce immaginare il vino mentre matura, s’eleva, evolve, nobilita i propri caratteri organolettici sino a toccare, equilibratamente, il vertice delle sue possibilità. Poiché l’affinamento in bottiglia è addirittura decisivo per alcune produzioni specifiche (può durare diversi anni!), posso risponderti che il vino continua la sua “esistenza” e il suo divenire – in termini di colore, profumi… – fino al momento in cui lo versi e lo gusti. Dai novelli ai riserva, ti auguro il mio miglior prosit!

  • Durante un assaggio, tutti roteavano il vino nel bicchiere. Io non ci sono granché riuscito…

    …non ti preoccupare. All’inizio, i “vortici” nel bicchiere sono cimento difficoltoso un po’ per tutti. Nondimeno, far sì che il vino investa le pareti del bicchiere e si ossigeni è fondamentale per cogliere quelle virtù (o quei difetti) che si sprigionano in senso olfattivo. I profumi, infatti, sono sostanze chimiche volatili che “dipendono” dalle dimensioni e dalla concentrazione di molecole. S’avvitano a spirale ed ecco che al naso un vino potrà apparirti più o meno impattante, più o meno complesso, più o meno elegante e armonico. Allenandoti, impugna il calice in basso, tienilo un poco inclinato e agisci in senso rotatorio con delicatezza. Se ancora non ti “fidi”, puoi tenere la base del calice aderente al tavolo e girare così.

  • Macerazione, cosa significa?

    Macerazione significa che il mosto sta per diventare vino mentre le parti solide degli acini sono ancora a contatto con quelle liquide, dopo la spremitura. La macerazione segue diverse tecniche e risente di diversi fattori, è comunque una fase fondamentale della vinificazione in rosso ed anche in cerasuolo, perché le vinacce (specialmente le bucce e i vinaccioli) rilasciano polifenoli, fra cui tannini e antociani, responsabili del colore, della struttura e di alcuni aromi del vino finito. Dura mediamente 6-7 giorni, ma Bordeaux e Barolo implicavano talvolta macerazioni di 20-30 giorni, che sortivano vini da invecchiamento assai tannici.

    Per i bianchi, di cui si vogliano incentivare il dato strutturale e gli aromi primari, da alcuni anni si ricorre non di rado alla criomacerazione, la quale prevede contatto fra bucce e mosto per la durata di un giorno, a temperature attorno allo 0°. Quanto infine alla macerazione carbonica (vini novelli, Beaujolais Nouveau) ti rimando al mio corso sul vino, le cui varie puntate trovi qui scorrendo i post precedenti.

  • Il Brunello di Montalcino si ottiene da un vitigno di nome brunello?

    No, o meglio facciamo chiarezza. Sarebbe infatti troppo “semplice” una totale e diretta identificazione del nome dei vini col nome del o dei vitigni da cui sono ottenuti.
    Non esiste un vitigno brunello se non come varietà locale, clone, del vitigno sangiovese (su cui si fa sovente confusione), che dà buona prova di sé in Emilia-Romagna ma soprattutto in Toscana, sangioveto, già nominato dal Soderini nel ‘500, poi diffusosi nell’800 un po’ in tutta Italia, tanto più che si presta ottimamente agli uvaggi/assemblaggi sia con vitigni connazionali sia bordolesi.Presenzia innumerevoli DOC italiane ma è oggetto di attenzioni anche all’estero, in California ad esempio sta sviluppando valide performance su terreni di pregio.

    Quanto al mitico Brunello di Montalcino, nato a fine ‘800 per merito delle lungimiranti intuizioni della famiglia Biondi-Santi, e insignito DOCG dal 1988, un rigido disciplinare prevede sangiovese (nome in loco: brunello per via degli acini scuri) in purezza e invecchiamento di 5 anni, 2 dei quali in rovere seguiti da 4 mesi in bottiglia bordolese di vetro scurito e tappata con sughero (il Riserva 6 anni di cui 2 in rovere seguiti da 6 mesi in bottiglia). Chi se lo può permettere, degusti gli anni 1990, 1995, 1997, 1999, 2004…

  • Il Vermentino s’incontra anche fuori Sardegna?

    Certamente sì. Il Vermentino è un emblema della mediterraneità, s’incontra in Sardegna (DOCG in Gallura), Liguria (dove presenzia ben 4 DOC su 8), Toscana, Corsica, Pirenei (malvasia grossa), ed anche in Piemonte col nome di favorita. Ma ampelograficamente si notano inoltre vicinanze con l’ungherese furmint.

    Il suo nome parrebbe (sottolineo il condizionale) genovese, e derivare dal colore rosso vermiglio dei tralci. Scrive il celebre agronomo finalese Giorgio Gallesio, autore della Pomona Italiana, nel 1817: “…sostanzialmente due le più importanti varietà di vitigni diffusi in Liguria: il Vermentino e il Rossese. Il primo è prediletto nel genovesato e quello che gode la riputazione più estesa tra le varietà che si coltivano da Ventimiglia a Sarzana…”

    Dà ottime rese, anche 110 quintali d’uve per ettaro. Oggi il Vermentino ligure è forse complessivamente meno spagnolo, avendo acquisito in acidità ciò che ha perso in aromaticità. Presenta di solito un giallo paglierino scarico, dai leggeri riverberi dorati. Ha sentori piacevoli, duraturi, con insistenza di fiori, erba, frutti, sino all’anice, al miele e al bosco. Elegante in bocca, con giusta sapidità e persistenza, sino al finale tenuemente amarognolo.
    Si consuma giovane, a 10° in calici a stelo alto, abbinandogli il mare, le verdure ripiene, i malloreddus, la pasta ripiena con burro e salvia, risotto agli asparagi, pesci lessi o al forno, aragosta alla catalana, ricette che nel Mediterraneo s’inseguono da sponda a sponda.

  • La Francia ha anch’essa le DOC e le DOCG?

    Il sistema francese, istituito negli anni ’30, prevede al vertice le AOC (appellation d’origine controlée), affini alle nostre DOC. Esse possono abbracciare territori molto ampi o viceversa poco estesi, si sale dunque da denominazioni “vaste”, ad esempio l’AOC Bordeaux* , e per così dire regionali, fino a zone e località più minimali, sino a salire ai celebri e pregiati cru, ovvero appezzamenti su cui la vigna gode di particolari condizioni pedoclimatiche. Sono inoltre previsti, in estrema sintesi, inferiormente alle AOC, i livelli vin de pays, affine alle nostre IGT, e vin de table, affine ai nostri vini da tavola.
    * Bordeaux prevede inoltre le denominazioni chateau in base all’originaria normativa dei classement, cui presto dedicheremo un testo a sé.

  • Che vino si può avvicinare bene al cioccolato?

    Più corretto sarebbe chiedersi: che vini si possono avvicinare bene ai diversi tipi di cioccolato? Uva e cacao… , la questione riesce peraltro “spinosa”, essendo il cioccolato un alimento assai complesso, grasso, tannico, e a volte acido.
    Fino a tutti gli anni ’70 ci si limitava all’acqua e a null’altro (nondimeno, in cioccolateria, il rum invecchiato e i distillati di vinacce sono stati sempre usati come farciture…). Oggi si osa di più, con quella curiosità tipica dell’inventiva, è soprattutto importante approfondire il tipo di cioccolato in assaggio e abbinargli vini da 17-18° alcolici, per attivare un lieve bilanciamento rispetto al burro di cacao – tutto ciò elimina dunque dalle ipotesi i vini bianchi, salvo le vendemmie ultratardive o i passiti – .

    I francesi, che ad ogni alimento – nessuno escluso – s’ingegnano d’abbinar vini, con esiti ora più ora meno fortunati, ricorrono al celebre Banyuls, vino dolce da dessert con una discreta gradazione alcolica e una nota di frutta secca, speziata, e di cuoio e caramello, e al Maury del Roussillon, vino dolce naturale (Banyuls e Maury derivano entrambi dal vitigno granaccia, il più diffuso al mondo, presente anche in Liguria).

    Tralasciando i Cognac e gli Armagnac, i whisky, i Calvados e i distillati di prugna, che non sono strettamente coerenti al tema vini-cioccolato che stiamo percorrendo, ulteriori sposalizi interessanti si ottengono con Porto vintage, Xerez Cream, con Marsala e vini passiti di Pantelleria in Sicilia, oppure in Piemonte con l’Erbaluce di Caluso passito. Si nota quindi il ricorso frequente a vini liquorosi, fortificati dall’alcol. Quelli, per intendersi, con la fascetta rosa dell’accisa sul tappo.
    Il mitico Barolo chinato, riemerso dopo anni malgrado i prezzi non-per-tutte-le-tasche, è sicuramente un’altra scelta notevole, anche in presenza di cioccolato nocciolato, specialmente in quei territori che della nocciola tonda gentile hanno fatto una religione, e la “sposano” al cacao nel gianduia. Quanto al chinato, il cioccolato crea quasi sempre consonanze inattese in presenza delle erbe aromatiche, come la china calissaia ma non solo, anche il cardamomo, il coriandolo, la menta (raccomando una visita al museo di Pancalieri, vicino a Torino!…) e la cannella.

    Infine, un ultimo abbinamento prevede non vino ma…caffè, il quale viene utilizzato anche durante i cicli di lavorazione come esaltatore di sapore. Lo sanno bene, non a caso, a Torino e dintorni, dove vige il culto del celebre “bicerin”, la tazzina di caffè e cioccolato vecchia di almeno duecento anni, insostituibile conforto invernale…

  • Quand’è che un vino si fregia del titolo di DOC?

    La classificazione italiana del ’63 (dall’alto al basso DOCG, DOC, IGT, vino da tavola) “rifletteva” le consolidate esperienze francesi, dove i 4 livelli si chiamano rispettivamente AOC, VDQS, vin du pays e vin de table.

    Un vino è DOC quando, sostanzialmente, viene prodotto rispettando un protocollo disciplinare e all’interno di una specifica zona (DOCG è quello di ulteriore pregio, e diviene tale dopo aver meritato la DOC per almeno 5 anni).
    Dal 2009, in seguito alle decisioni dell’UE dapprima del 2002 (VQPRD) e poi del 2008 (aggregazione in DOP), non si assegnano più nuove DOC, ma beninteso i vini che vantano già questa denominazione sono legittimati a ripeterla.

    I vini DOC, in Italia, si attestano attualmente intorno ai 300, i DOCG intorno ai 45. La querelle è sempre aperta, perché alle DOC si imputa da un lato un’eccessiva rigidità, ad esempio per quanto attiene all’affinamento di alcune produzioni, dall’altro un’eccesiva tolleranza, ad esempio per quanto attiene a vitigni e rendimenti alla base di altre.

  • La dicitura in etichetta “contiene solfiti” significa che quel vino non è naturale?

    La questione va posta diversamente. Premesso che Ligucibario propone già contenuti sul tema vini biologici-biodinamici, la dicitura “contiene solfiti”, obbligatoria dal 2005 – sul modello della normativa USA -, indica semplicemente che l’anidride solforosa addizionata supera i 10 mg.
    Prezioso alleato contro ossidazioni e sepsi, la solforosa rappresenterebbe infatti ad alte dosi un elemento di tossicità assai pericoloso. Si sottolinea: ad alte dosi. Chiaramente, oggi chi vinifica lo fa con criterio, 3 g di solforosa per quintale d’uve (giusto per fornire un dato medio) non lasciano alcun segno, si può bere con serenità… Va da sé che i vini bianchi e gli spumanti sono le tipologie che ne contengono di più.

  • L’origine della vite?

    Vite vinifera, origine e storia

    Vite vinifera, origine e storia

    Appassionante la storia della vite, che con l’ulivo e i cereali compone la cosiddetta triade mediterranea. La varietà da cui ricaviamo il vino è la Vitis Vinifera Sativa, una pianta ermafrodita verosimilmente originaria dell’Asia Minore, e in particolare delle aree Caucaso, Siria-Anatolia, nord ovest della Mesopotamia. Da lì essa viaggiò verso la Grecia, Roma, la Francia e l’Iberia, ma questo viaggio non potrà mai essere ricostruito in modo definitivo.

    Dobbiamo ai Fenici alcuni ”spostamenti” che la resero così diffusa presso gli Egizi, popolo che addirittura raffigurò la vite e la vendemmia in rilievi e pitture anche tombali – sappiamo che nei magazzini le anfore erano complete di etichette, in carattere ieratico, ricche di informazioni sul contenuto, E che i tappi sigillati recavano il nome del proprietario, non di rado il faraone o un suo cortigiano – . Leggiamo poi nel Libro della Genesi, all’inizio della Bibbia, che Noè, dopo il diluvio, giunto con l’arca sul monte Ararat vi piantò proprio la vite…

    Reperti archeologici, in particolare alcuni vinaccioli, dimostrano che la sottospecie selvatica della vite (cui appartiene anche la Vitis Labrusca americana = fox grape) precedette quella domesticata, la quale comparve solo alla fine dell’età del bronzo.
    I primi “documenti” sulla viticoltura sono scritti sia in aramaico (Qutama, IV secolo a.C.), sia in greco (Magone…) e sia soprattutto in latino (Plinio, Columella, Catone, Isidoro), allorquando i ruralisti e poi alcuni intellettuali cominciarono a dar conto delle proprie ricerche e scoperte.
    Sono della Grecia anche le prime pratiche di potatura, onde ottenere sulla pianta un giusto e ben ripartito carico di grappoli. La potatura invernale infatti “coincide” con quel sistema di allevamento che sceglieremo come impianto e come forma per tutta la vita della pianta, quella verde – qualitativa – “seleziona” i grappoli da condurre a maturità (quelli più vicini alla pianta contengono più zuccheri).
    Se vuoi saperne di più, iscriviti al nuovo corso sul vino curato da Umberto Curti – Ligucibario®.
  • La mistella, cos’è?

    La mistella, detta anche sifone, è mosto che possiede naturalmente una gradazione minima di 12° e che viene fortificato – con alcol o acquavite – così da alzare la gradazione fra i 16 e i 24°.
    Assai zuccherino, perché molti lieviti oltre i 15° si “arrendono”, questo composto si utilizza nei vini liquorosi, ad esempio molti Marsala, gli adoratissimi Jerez (Sherry), i Malaga… Se sei golosa, abbina questi vini a formaggi strutturati e pungenti (gorgonzola, castelmagno, stilton e roquefort), a pasticceria secca con nocciole e noci, ad alcuni cioccolati.

  • I vinaccioli sono nocivi?

    No, se il vinificatore sta attento a quel che fa durante la pigiatura (contengono tannini). Dai vinaccioli, legnosi, si ricava circa un 18% d’olio dietetico (oggi utilizzato anche per scrub corporei) e si impiegano (elaborati) come mangime bovino. I vinaccioli furono i reperti archeologici da cui si stabilì, per forma e dimensione, che la vite selvatica precedette quella domesticata, vitis vinifera sativa, la quale apparve solo alla fine dell’età del bronzo.

  • Ho sentito un contadino raccontare di come “folla” i cappelli di vinacce. Cioè?

    Durante la fermentazione alcolica, il “cappello” delle bucce che sale a galleggiare in cima al mosto, spinto in sù dall’anidride carbonica, dev’essere costantemente bagnato, almeno una volta al giorno o meglio due, onde evitare “tappi” e ossidazioni che causerebbero acescenza – un vocabolo maledetto dall’enologia – .
    Nelle piccole cantine si esegue perciò per vari giorni la follatura – coi tipici bastoni a pioli alterni – , nelle grandi il rimontaggio. Il significato è identico: follatura e rimontaggio (effettuati con dolcezza, per non agitare le fecce melmose sul fondo) fan sì che il cappello si mantenga bagnato, o schiacciandolo dall’alto e dunque immergendolo nel suo mosto, o irrorandolo col mosto (1/4 del totale) prelevato in basso. La massa verrà positivamente ossigenata a scapito dell’anidride carbonica e a beneficio dei lieviti, smossa, rinvigorita, zuccheri e alcol non si stratificheranno, si esalterà il colore, si contrasteranno le muffe. Freddo sotto, caldo sopra, omogeneamente. Ciò è tanto più importante nel caso di climi rigidi, quando ormai il tepore della vendemmia è lontano e l’inverno s’avvicina rapidamente. Alcuni contadini dicono: meglio niente follature che troppo poche o troppo lontane.

  • Come verso un rosso nel decanter, e quanto tempo prima di consumarlo?

    In genere è sufficiente ed ottimale travasare dolcemente il vino un paio d’ore prima del consumo. É bene durante il travaso tenere una fonte di luce sotto il collo della bottiglia, così da arrestare l’operazione quando il deposito si avvicina all’orlo e potrebbe fuoriuscire. Nelle bottiglie bordolesi la spalla pronunciata fa sì che il deposito si arresti già ben prima. Si possono decantare e ossigenare rapidamente anche taluni vini bianchi, quando presentino un intenso residuo di solforosa, ma se si avverte un forte sentore di ossidato è verosimile che la bottiglia sia ormai imbevibile. É bene evidenziare che il travaso “armonizza” rapidamente un vino, ma è anche un metodo rude che può talvolta disperdere i profumi più fini.

  • Come sistemo sugli scaffali di cantina i vari tipi di vino?

    Anzitutto coricando le bottiglie, e mi auguro che i tuoi scaffali siano di legno. A quel punto – dal basso all’alto – posizionerai gli spumanti, i bianchi di minor impegno, poi quelli più importanti e aromatici, e via via continuando a salire i rosati (compresi i rossi come il Ciliegiolo), i rossi di facile beva, i rossi strutturati e da invecchiamento… Ricorda mediamente di assicurar loro temperature omeostatiche, costanti fra 10 e 15°, e un’umidità del 60-65-70%.
    Perfetto, come intuirai, sarebbe un luogo sotterraneo, nella roccia oppure rivestito con pietra o mattoni, e con pavimento ghiaioso o di cemento grezzo battuto.
    Infine conserva i vini lontani dalle vibrazioni e dagli odori (formaggi, salumi, vernici, lucido da scarpe, detersivi…), e riparali dalla luce, che penalizza quelli più delicati (spumanti, bianchi, rosati) e/o confezionati in bottiglie non scurite. La luce sia comunque bassa, schermata, certo non i neon.
    Buona collezione, e ricorda che nessun armadio refrigerante, per quanto utile, ha il fascino della vecchia “cave”!

  • Nel film “Mondovino” un enologo francese esorta a ossigenare il vino. Come mai?

    Si tratta di Michel Rolland, enologo sessantunenne di Pomerol, cui il regista Jonathan Nossiter rivolge un’attenzione “dialettica”. “Il faut oxygéner”, esorta ripetutamente ai clienti questo consulente di fama mondiale, fautore – con lo statunitense Robert Parker – di un’ideologia del vino molto target oriented, su cui sarebbe arduo pronunciarsi senza entrare in una disputa che ha squassato e sta squassando il settore.
    “Il faut oxygéner”… Tale pratica si realizza, fra fermentazione alcolica e malolattica, soprattutto in caso di rossi strutturati e complessi, con appositi erogatori, per stabilizzare i polifenoli. Ciò innescherà un “robusto” potenziamento nei legami fra i tannini e fra tannini ed antociani e proseguirà durante l’elevazione, sovente in barrique (vista la tipologia dei vini e il mercato cui destinarli).

  • Uno spumante sec è molto secco per il gusto di un consumatore medio?

    In realtà, uno spumante sec presenta un tenore zuccherino residuo nel vino da 17 a 35 g per litro. La “graduatoria”, partendo dai più secchi, comprende quindi: brut de brut o brut zero (0 g per litro), extra brut (0-6 g per litro), brut (meno di 12 g per litro), extra dry (12-17 g per litro), sec (17-35 g per litro), demi-sec (35-50 g per litro), dolce (maggiore di 50 g per litro). Se non si ricorre all’aggiunta del cosiddetto liqueur d’expédition, lo spumante – questo sì molto secco, da “duri e puri” – si chiama pas dosé, nature, dosage zero.

  • Quali sono i vitigni aromatici?

    Il moscato, il brachetto, il traminer, le malvasie. Sono poi detti semiaromatici l’aleatico, il sylvaner, il riesling renano, il sauvignon blanc, il muller thurgau (incrocio di riesling e chasselas), il prosecco… I terpeni, abbondanti nelle bucce, li rendono vitigni “odorosi”, ovvero in grado di garantire nel vino notevoli corredi di aromi primari. Poiché la questione merita d’essere approfondita, suggerisco i libri di Joanna Simon, di Attilio Scienza, di Jancis Robinson…

  • Il metodo Champenoise è francese e quello Charmat è italiano?

    Facciamo un po’ d’ordine. Il metodo Champenoise prevede la rifermentazione in bottiglia, il metodo Charmat prevede la rifermentazione in autoclave. Il primo metodo, forse un colpo di genio secentesco dell’abate benedettino Dom Pérignon, è alla base degli Champagne, e in Italia prende il nome di metodo classico. Il secondo, ideato quasi 3 secoli dopo dall’italiano Federico Martinotti prima ancora che da Eugène Charmat, è preferibile coi vitigni aromatici (moscato ecc.) per lavorazioni rapide. A differenza degli Champagne e dei metodo classico, si tratta di vini da consumarsi tendenzialmente giovani

  • Ho sentito in una vigna la parola portainnesto. Cos’è?

    La fillossera (philloxera vastatrix!) dalle Montagne Rocciose orientali sbarcò in Francia nel 1863 e un po’ in tutta Europa alla fine dell’800. In Italia le peggiori stragi accaddero in Valtellina e Oltrepo Pavese.
    Questo flagello aggredisce la pianta in due punti, la radice oppure altri apparati. La vite europea si rivelò vulnerabile quanto a radice, e la viticoltura del Vecchio Mondo rischiò d’estinguersi. Vani furono i primi rimedi con l’orina, la fuliggine, l’aglio pestato, alcune sostanze chimiche… Né valse concentrare alcune viti superstiti in terreni sabbiosi, ad es. in Romagna, nei quali l’insetto non riesce a muoversi e dunque a proliferare.
    La geniale intuizione a partire dal 1880 fu rappresentata dall’innesto, cioè innestando la pianta su una radice americana, dato che quest’ultima si rivelò invulnerabile alla fillossera (si dicono invece viti a piede franco quelle che sono scampate e sono dunque sane anche senza portainnesto americano). La dobbiamo al professor Planchoin di Montpellier. Oggi i portainnesti sono quanto mai perfezionati, ma nondimeno si può affermare che la fillossera ha cambiato il volto della viticoltura europea

  • Nel thermopolium, anticamente, si scaldava il vino?

    Nei thermopolium – piccoli ristori con bancone dove consumare cibi semplici – il vino si vendeva caldo e in quello di Pompei (thermopolium delle Aselline), la locanda più completa fra tutte quelle rinvenute, si sono recuperati utensili in terracotta e in bronzo con cui si conservava e si mesceva. In queste brasserie si trovavano anche l’idromele e altre bevande. Appetiti più robusti si rivolgevano invece alle cauponae, sorta di trattorie, e ai pistrina, sorta di panifici. Circa i diversi vini dell’antica Roma, cara Angela, potrà piacerti il mio Tempo Mediterraneo. Quel che resta di Apicio in cucina, ed. La Vigna, Genova, 2010.

  • Cosa sono le vie d’accesso olfattive?

    Sono i due percorsi compiuti dagli odori al momento della percezione. Uno è chiamato “via diretta” in quanto dall’esterno attraversa le narici sino alle fosse nasali. L’altro è chiamato retrolfazione (gli esperti parlano di corrispondenza naso-palato) in quanto sale dall’interno della bocca, per via nervosa attraverso il cavo faringeo.

  • La Liguria è tuttora fra le regioni in cui la viticoltura viene detta eroica?

    Certamente sì, visti gli sforzi che tuttora occorrono per coltivarvi la vite. Si pensi alle Cinque Terre, vigne verticali a strapiombo sul mare, teleferiche per trasportare le ceste, e tutt’attorno un paesaggio di fasce terrazzate da muretti a secco, di sentieri e scale che danno le vertigini…
    Ma anche altrove la temerarietà del contadino ha superato le criticità ambientali e sortito risultati d’eccellenza: la Val d’Aosta, la Valtellina (dove il nebbiolo si chiama chiavennasca), il Collio friulano, l’isola d’Ischia, la Ribeira Sacra-Galizia in Spagna, Porto e Madera in Portogallo, la Loira, lo Champagne e la Valle del Rodano in Francia, la Mosella e il Reno in Germania…

  • La fermentazione alcolica, cos’è?

    In estrema sintesi, è il processo anaerobico tramite cui i lieviti – preferibilmente a certe temperature – per nutrirsi trasformano zuccheri in alcol etilico e alcune altre sostanze. Questo è uno degli argomenti, che puoi trovare ben approfondito nel corso completo sul vino che ho caricato qui su Liguvinario nei mesi scorsi (dove trovi anche la fermentazione malolattica). La fermentazione alcolica la “intuì” e la enunciò già nel 1787 Adamo Fabroni. Ma fu Louis Pasteur a metà ‘800 a scoprire i lieviti (funghi monocellulari, dunque esseri viventi, non dimentichiamolo). Quando il processo “ferve”, e il mosto è perciò in pieno tumulto, i lieviti giungono ad essere anche 100 milioni/cm3.

  • Mi hanno regalato una demi di passito che reca sul tappo l’accisa rosea. Come mai?

    Non si tratta in realtà di un passito, ma di un vino liquoroso (o fortificato), gradazione minima 12°, derivante da una vinificazione peculiare che implica l’aggiunta di alcol e che perciò rientra in quanto previsto fiscalmente dal legislatore. Il più celebre vino liquoroso italiano è forse il Marsala, ma la tecnica origina dai trasporti inglesi durante il XIX secolo, infatti gli allora padroni del Mediterraneo trasportavano verso la madrepatria vini provenienti da Marsala, Porto, Madera…, l’addizione di alcol li approdava to the United Kingdom “sani e salvi”.

  • E’ pregiato uno spumante “pas dosé”?

    La domanda è un po’ mal posta. Pas dosé (o dosage zero, o nature) non è espressione che si riferisca al pregio di uno spumante, ma solo al fatto che nella vinificazione (metodo classico, champenoise) dopo lo sboccamento non si fa ricorso all’aggiunta del cosiddetto liqueur d’expédition.
    Ogni maison chiaramente ha il proprio segreto, ma in genere nel liqueur si trovano sostanze quali solforosa, vino, zucchero di canna, brandy stravecchio… In caso di assenza, lo spumante viene detto pas dosé e risulta molto secco, da “adepti”, non gradito a tutti. La cosa migliore da farsi è provarlo, così verificherai: se divenire a tua volta un adepto oppure preferire spumanti più morbidi.

  • Cosa sono l’allegagione e l’invaiatura?

    Sono fasi cosiddette fenologiche, ovvero riferite al ciclo vitale della pianta.
    L’allegagione è il momento in cui il fiore si fa frutto ed i grappolini cominciano ad assumere la forma che conosciamo, sono ancora organi verdi contenenti clorofilla.
    Dopo il progressivo ingrossamento degli acini, durante l’invaiatura (40-50 giorni) gli acini mutano anche colore – maturando – per via dei pigmenti flavonici e antocianici. La polpa s’ammorbidisce, crescono volume e zuccheri, cala l’acidità (cioè cresce il ph), iniziano la sintesi degli antociani, il mutamento dei tannini, la sintesi delle sostanze aromatiche. S’avvicina la vendemmia!

  • In Francia sostengono che il vino faccia bene alla salute. Debbo fidarmi?

    La salubrità legata ad un moderato consumo di vini rossi, sta alla base del cosiddetto paradosso francese (si deve l’espressione a Serge Renaud, professore a Bordeaux, ma i primi studi sono opera di A.S. Saint-Leger ed altri alla fine degli anni ’70, “Factors associated with cardiac mortality in developed countries with particular reference to the consumption of wine”, per non dire… di Ippocrate): i cugini d’Oltralpe mangiano infatti molti grassi saturi – carni, burro… – , ma presentano una bassa incidenza di patologie cardiovascolari, che viceversa, come noto, flagellano il Regno Unito e gli USA.
    Il vino infatti stimola motilità gastrica e digestione, è un antiossidante (grazie al resveratrolo delle bucce) e un vasodilatatore, contrasta l’Alzheimer e il decadimento senile coadiuvando la rigenerazione neurotica… Infine l’acido malico è un disinfettante epato-urinario, mentre il citrico previene i calcoli biliari. Si suol quantificare in 0,6 g per chilo di peso corporeo la giusta quantità di alcol da assumere quotidianamente (in una bottiglia si quantificano i grammi presenti moltiplicando il grado alcolico x 7,9).

  • Cosa sono i Terpeni?

    Cosa sono i Terpeni?

    Si tratta di un ampio ventaglio di composti chimici presenti nell’uva, con “picchi” riguardanti i vitigni cosiddetti aromatici (traminer, malvasia, moscato, aleatico, brachetto…). Si accumulano nell’acino durante la maturazione. I terpeni stanno alla base di quei sentori primari, ad es. floreali, che inconfondibilmente percepiamo e apprezziamo durante l’esame olfattivo.

  • Il Banyuls, ottimo partner del cioccolato, è solo francese?

    Sinceramente, il concetto di “nazionalità” può addirsi poco ai vitigni e di conseguenza ai vini. Tuttavia, per rispondere alla domanda, il Banyuls (effettivamente ottimo partner del cioccolato…) è una AOC che individua un liquoroso rosso, il cui nome rimanda ad un villaggio del Roussillon, tipico paesaggio mediterraneo tra Francia e Spagna, circa 1.300 ettari “scoscesi”.
    Si tratta, ripeto, di un liquoroso, cioè un vino al quale in fermentazione e macerazione è stato aggiunto alcol, che “preserva” un notevole residuo zuccherino. La gradazione alcolica tocca circa i 16°.
    Come avviene in Liguria e in altre zone di viticoltura impegnativa, le fasce terrazzate sono sorrette da muretti a secco e “traguardano” il mare. Banyuls significa granaccia (grenache, garnacha), significa frutti rossi e prugne, un grande vino da dessert e da meditazione. Io suggerisco le bottiglie in cui l’affinamento ha prodotto un ricco bagaglio d’aromi terziari. La distinzione produttiva prevede anche la tipologia Grand Cru (grenache 75%) che si eleva in legno per trenta mesi.

  • Quali vini bere con la frutta?

    L’abbinamento cibi-vini è stato già variamente toccato da Liguvinario. Mi piace comunque ribadirti, malgrado alcuni esempi più che “occasionali” (pesche col Moscato, melone col Porto…), che la frutta s’accompagna male ai vini. Nondimeno, è notoriamente rituale il consumo di vini novelli nel periodo delle castagnate – e dei Toerggelen – , si tratta di un abbinamento stagionale, che non sovverte la regola base di buon senso: la frutta si apprezza senza vini (casomai, è molto più stimolante “inseguire” i sentori di frutta presenti in molti vini…).

  • I vini bianchi si ottengono solo da uve bianche?

    Non necessariamente. Come i vini rosati (cerasuoli) si ottengono lasciando le bucce di uve a bacca rossa a contatto col mosto solo per brevissimo periodo, in genere 24-48 ore, così da uve a bacca rossa si possono ottenere anche vini bianchi, purché la separazione delle parti solide da quelle liquide sia immediata, e le bucce – cariche d’antociani – non possano quindi rilasciar colore. Uno dei casi più celebri e apprezzati è rappresentato dal Pinot nero, non di rado vinificato in bianco, cioè senza l’apporto cromatico delle bucce…

  • Dove verso gli spumanti tipo Berlucchi o Ferrari?

    Berlucchi, Ferrari, glorie italiane del “metodo classico”, ovvero la rifermentazione in bottiglia che in Francia chiamano méthode champenoise. In Italia il viaggio attraverso gli spumanti svela i paesaggi incantati della Franciacorta, del Trentino, sapienza e tecnologie… A differenza degli spumanti dolci, che si versano in coppe ampie, gli Champagne e gli spumanti secchi si sono tradizionalmente bevuti nelle flutes alte e strette (difatti la parola, in francese, significa flauto). Recentemente, la cosa è stata posta in discussione ed essi si degustano in calici più larghi, onde apprezzare meglio – oltre al perlage – anche il corredo di profumi che si sprigionano verso l’alto, può trattarsi di viola, acacia, fieno, lieviti, agrumi… Ricordati di bere questi vini “speciali” alla giusta temperatura, e di abbinarli correttamente (evitando i dolci: coi dolci privilegerai moscati, passiti…)

  • Ogni vino è descrivibile con aromi di base “predefiniti”?

    Circa il vino, la terminologia ricorre alle espressioni aromi primari, secondari e terziari.
    Semplificando, gli aromi primari originano dalla pianta, cioè dalla varietà di vite che concretamente viene coltivata in un certo terreno, e che interagisce col clima e col lavoro dell’uomo.
    Gli aromi secondari originano dai processi di vinificazione, in pratica dal momento in cui l’uva viene lavorata e trasformata in mosto sino al momento in cui il vino entra in bottiglia.
    Gli aromi terziari originano dall’affinamento, il periodo nel quale il vino continua a maturare ed evolvere dentro – appunto – la bottiglia.

    Tutte queste operazioni “scontano” evidentemente numerose variabili, che rendono vini teoricamente simili, in realtà, molto diversi fra loro. Si potrebbe dire, modificando un proverbio, che il vino è bello perchè è vario. Tuttavia, aldilà delle fasi sopra descritte, innegabilmente alcuni vini, in funzione del vitigno di provenienza, si legano ad alcuni descrittori, che rinviano a sentori in molti casi presenti e avvertibili in quei vini. A puro titolo d’esempio, ecco la rosa nel Brachetto, ecco il timo nel Pigato, ecco la ginestra nel Vermentino, ecco la pera Williams nel Prosecco, ecco il peperone nel Cabernet Franc…

  • Il metodo soleras, che cos’è?

    Profumo di Spagna, la parola al singolare significa “suolo” e questo è un metodo impiegato nella produzione di Jerez e Malaga (ma un tempo anche di Marsala), unendo vini di annata diversa al fine di garantire qualità costanti e identitarie in bottiglia.
    Si pongono una sopra l’altra botticelle in rovere di raccolti diversi, e quando da quelle della fila più in basso (“solera”) si preleva per l’imbottigliamento una certa quantità di prodotto, da quelle sùbito soprastanti – contenenti vino più giovane – scende la quantità di rimpiazzo, e così via con ricolmature a cascata. La fila in cima, quella col vino più recente, detta criadera, viene ricolmata col vino di nuova vendemmia. Il metodo soleras, in qualche modo, consente di avere ed apprezzare in ogni bottiglia la storia produttiva dell’azienda, ricca di apporti, sebbene le vendemmie più antiche presenzino in quantità minima. Si adotta anche per alcuni rum e brandy di gran pregio…

  • La fermentazione malolattica, cos’è?

    Più tipica dei vini rossi, e successiva a quella alcolica, la fermentazione malolattica – detta anche “di rifinitura” – è, in estrema sintesi, la trasformazione dell’acido malico, più pungente, in acido lattico, più debole. Si realizza a causa, anzi in virtù di specifici batteri. Il vino risultante è più armonioso, più arrotondato, ed il percorso malolattico di solito incentiva nel vino che via via matura anche i cosiddetti aromi terziari, i quali in tal modo integrano i primari (aromi dovuti alla varietà di vite) e i secondari (aromi dovuti alla vinificazione).

  • Cosa abbino al Dolceacqua Rossese?

    La DOC risale al 1972. E’ vinificato nelle versioni Base e Superiore, quest’ultima presenta invecchiamento di un anno post-vendemmia e gradazione alcolica complessiva minima di 13°. Ha color rubino non carico, e sentori di rosa e fragola. E’ talora percepibile una gradevole nota amarognola, come di catrame (goudron).
    Il sapore è sempre vivo, persistente. Il Dolceacqua si può bere giovane e più “spigoloso”, ma talora offre il meglio di sé anche dopo alcuni anni, anche 5 o 6, lasciandolo affinare. E’ vino da tutto pasto, degno partner ad esempio di:

  • La Silicon Valley è un’area vinicola?

    …beh, direi proprio di no. La “valle del silicio” (capoluogo San José) è dal 1971 l’appellativo di un territorio a sud della Baia di San Francisco caratterizzato dalla presenza di moltissime aziende informatiche. Il lettore alludeva forse alla Napa Valley, la più celebre area vitivinicola della California, circa 100 km a nord di San Francisco. Vi prospera la viticoltura, grazie al clima, sin dalla prima metà dell’Ottocento, e nel 1880 si contavano 7.300 ettari di vigne, un po’ come sommare oggi le superfici a vigna di Alto Adige e Liguria. Negli anni ’60 del Novecento la famiglia Mondavi (originariamente emigrata dalle Marche al Minnesota) investì ingenti somme per elevare la qualità delle uve e della vinificazione. Via via, gli Chardonnay, i Merlot e i Cabernet Sauvignon locali poterono competere con quelli francesi, come dimostrato anche dal clamoroso Jugement de Paris del maggio 1976, allorché alcune bottiglie californiane superarono quelle francesi. Oggi gli ettari sono 20.ooo, per circa i due terzi sono vini bianchi, e si prosegue con belle sperimentazioni legate anche ad altri vitigni…

  • La fillossera. E’ una malattia, o un insetto?

    E’ una malattia indotta da un insetto parassita, e purtroppo il terrore appare sempre giustificato, dato che la vite è pianta vulnerabile, ed esige instancabili verifiche e “manutenzioni”. I suoi nemici non sono soltanto gli afidi della fillossera, essa infatti teme anche vari funghi (l’oidio, il mal dell’esca e la peronospora), un fitoplasma detto flavescenza dorata, e le idrometeore, sotto forma soprattutto di grandine.

    La fillossera (il cui nome scientifico, sinistramente, è philloxera vastatrix!) origina dalle Montagne Rocciose orientali negli Stati Uniti, arrivò in Francia nel 1863 e poi un po’ ovunque in Europa. Nel 1879 spazzò via la viticoltura della Valtellina e dell’Oltrepo Pavese. Nel suo generarsi partogenetico assale la pianta alla radice oppure in altri apparati. La vite europea si mostrò attaccabilissima alla radice, e inutili risultarono i primi rudimentali esperimenti a difesa, con l’orina, la fuliggine, l’aglio pestato, alcune sostanze chimiche… La calamità riguardò meno le viti su terreno sabbioso, ad es. vicino al mare in Romagna, dove l’afide si muove a stento e dunque non prolifera.

    La vittoria sulla catastrofe, a partire dal 1880, fu merito del cosiddetto innesto, cioè innestando la vite europea su una radice americana, che è immune dal male (viti a piede franco sono viceversa quelle che si sono salvate e perciò non hanno richiesto portainnesto americano). La tecnica, letteralmente salvifica, fu ideata dal prof. Planchoin di Montpellier, e impedì la desertificazione dei vigneti europei, francesi e italiani in particolare.

  • Beaujolais e vino novello sono la stessa cosa?

    Prima di tutto occorre presumere che il lettore si riferisca al Beaujolais Nouveau, quello da “stappare” dal 3° giovedì di novembre. In realtà, benché esso e il vino novello italiano si ottengano mediante macerazione carbonica, le differenze non sono poche: il Beaujolais Nouveau, sperimentato dagli anni ’30, è ottenuto con uve tutte macerate carbonicamente, mentre per i novelli italiani la normativa, che li ha introdotti nel 1987, prevede che siano tali anche vini ottenuti con solo un 30% di uve macerate carbonicamente.

    Inoltre, il Beaujolais Nouveau origina dal solo vitigno gamay (una delle tante glorie borgognone), mentre i novelli italiani originano – caso per caso – da decine di vitigni, fra cui alcuni internazionali, e da uvaggi. Chiaramente, l’identità del Beaujolais Nouveau è più definita, i novelli italiani condividono le “variabili” del vitigno d’origine e dipendono dalle singole specifiche prassi di vinificazione. Veneto e Toscana sono le regioni leader, tallonate dal Trentino.

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