La civiltà del castagno: Liguria, Calizzano…
“Il riccio del castagno nasconde tre frutti, il primo del contadino, il secondo del povero e il terzo del prete…”
Sto svolgendo docenze anche nella terza e quarta edizione del corso di qualifica GAE presso l’ente formativo F.Ire di Genova, corso che abilita alla professione su scala regionale. Fra i molteplici temi che instancabilmente propongo ai corsisti v’è naturalmente quello della cosiddetta cultura del castagno.
Dai monti Pirenei alle Alpi Apuane, per così dire, la Castanea sativa infatti significò – ed in parte ancora significa – una civiltà ed un’economia specifiche. Una civiltà che l’antropologo definirebbe insita via via nel profondo degl’immaginari collettivi (giovando dunque ad un affinamento delle tecniche colturali), e che non a caso ritorna anche nella letteratura, nella pittura, nell’esprimere e nell’autofigurarsi delle comunità…
Del resto, ai legionari fedeli già Roma riconosceva non la proprietà dei suoli, ma la prerogativa di piantarvi castagni per il sostentamento, ciò che poteva essere anche oggetto di cessione o lascito ai figli (e qualcosa di tale diritto, si pensi, sopravvive tuttora in Svizzera e nella sottostante val Camonica…).
Le invasioni barbariche, come noto, via via produssero anche un abbandono delle zone montane meno “lavorabili”, e ciò si riverberò direttamente sui castagni e la zootecnia transumante, molti pastori dovettero disertare le malghe. Ergo, Alpi e dorsali appenniniche si svuotarono similmente a quanto purtroppo avvenuto in tempi recenti, e rarissime furono le aree in cui il castagno sopravvisse significativamente anche durante l’Alto Medioevo. Fra queste, tuttavia, la Liguria, anche grazie all’azione sapiente di alcuni monaci (i cenobi, come noto, furono fucine di botanici, speziali…).
Oggi circa 300mila q di produzione costituiscono comunque un dato non residuale, valgono ½ kg di castagne pro capite, e vi sono fondati motivi per auspicare che tale dato aumenti (l’Italia si conferma sesto produttore mondiale)…
Del castagno non si butta nulla
Cibo e farina (e nei castagneti curati si coglievano porcini…), vien subito da pensare, grazie anche al bel profilo nutrizionale del frutto; ma in realtà del castagno non si buttava/butterebbe alcunché (era infatti chiamato “il maiale del bosco”):
- il residuo delle potature entrava fra la legna da ardere, benché non sia ottimale;
- i tannini servivano ai conciatori; l’eliminazione ogni anno dei polloni permetteva di realizzare cesti di varia dimensione; le foglie facevano da “teglia” sotto le campane di ghisa e quelle secche, custodite nelle fuiachere, fungevano da lettiera per le bestie allevate, o riempivano materassi e pagliericci, oppure se ne traevano infusi e tinture madri, oppure ancora vi si avvolgevano formaggi;
- e gli esemplari non più innestati fornivano legno di qualità sia per lavori “edili” (travi e assi, porte, tegole per i tetti…) sia per produrre vari attrezzi, nonché mobilio (tavoli, madie, panche, sgabelli, scaffali, letti e comodini, culle), solide staccionate a delimitare i poderi, palificazioni di sostegno…
Una volta, cent’anni fa, nell’hinterland milanese in direzione Lomellina vidi un ortolano arrostire le castagne: vidi il fuoco, la padella traforata, i frutti che “saltavano”, schiudendosi poco a poco e diffondendo un invitante profumo. L’ortolano le avvolse bollenti in un canovaccio onde rimuover le bucce e poi le riversò in una ciotola, offrendomene, con un gesto rituale che s’è inciso indelebilmente nei miei ricordi.
Castagno, il pane degli Appennini
Esiste peraltro sul tema tutta una mirabile, talvolta nostalgica saggistica, penso ai lavori di Riccardo Rao, Danilo Gasparini, Alfio Cortonesi, Giovanni Cherubini, Maurizio Miozzi, Tullio Pagano, Marco Alberti, Giovanni Romolo Bignami…
Da essi apprendiamo come la castagna, e la farina che essa origina, risolsero per secoli e secoli i fabbisogni alimentari di molta parte delle regioni d’Italia, da nord a sud. Ottimi castagneti s’incontrano in Piemonte, in Toscana, nella Garfagnana e in Lunigiana, dove non a caso proliferano mitologie (1) e fiabe e detti popolari a tema castagna (i bambini stessi nascono non dentro il grembo materno bensì dentro i tronchi del castagno…). Fondamentali coltivazioni ancora punteggiano – e caratterizzano – i Monti Cimini, nel Viterbese, nonché la Campania, e a Sant’Alfio in Sicilia sopravvive l’esemplare più longevo al mondo, circa 4mila anni di vita…
Castagno: il rituale degli essiccatoi
Io, da parte mia, frequento da tanti anni Calizzano, in alta val Bormida, dove il castagno convive col faggio e dove gli essiccatoi vengono chiamati tecci, ma ho “esplorato” – benché siano pressoché tutti dismessi – gli scau a Garessio, i canissi nella splendida valle Arroscia, gli uberghi , i metati in Toscana-Emilia… Un essiccatoio, fra l’altro, poteva funzionare in comune fra vari nuclei famigliari. E con apprensione ho poi seguito le tragiche vicende del cinipide galligeno, che in loco stava mettendo a rischio l’esistenza stessa dei castagni, prima che un insetto antagonista (il torymus sinensis), una vespina predatrice proveniente anch’essa dalla Cina, risolvesse la situazione.
Come sintetizzare il rituale dei tecci, che concorreva a scandire il calendario rurale? Le castagne fresche, colte a mano fra ottobre ed inizio novembre, si collocavano in questi monolocali su di un graticcio (che in alcuni casi, ove mancasse un essiccatoio, poteva perfino essere interno alla cucina di casa!). Il graticcio stava a circa 2,5 m da terra. Sottostante, su piastre, bruciava lentamente un fuoco atto a fornire più calore che fiamma, così da seccare le castagne, ma evitando di carbonizzarle (la farina risulterebbe oltremodo amara). Con costanza e pazienza quel fuoco veniva a turno “vegliato” per tutto il tempo indispensabile (oltre 1 mese), ardendo giorno e notte, sebbene con l’intensità minima possibile, grazie a braci con bucce secche (che risalivano alla battitura dell’anno prima). Nel frattempo, onde dare uniformità alla procedura, la massa dei frutti veniva ciclicamente smossa e capovolta tramite una specie di vanga di legno.
Al termine, si procedeva alla frantumazione delle bucce, parzialmente già separate dalle polpe, chiudendo le castagne in un sacco di tela spessa, che veniva percosso energicamente su un ceppo (si dicono viette le speciali castagne che superano l’essiccazione a buccia integra). Il vaglio a questo punto scorporava i frutti essiccati da tali bucce, così da procedere ad una selezione, che separava i frutti migliori dagli altri, ivi comprese le castagne rotte/danneggiate. Ecco quindi che i frutti migliori si destinavano alla conservazione o alla vendita (un commercio che talora costituiva una boccata d’ossigeno…), mentre gli altri tradizionalmente finivano sul desco del contadino o nutrivano il maiale/le galline. Le castagne conservate (in grossi bancali di castagno progettati all’uopo) si trasportavano poi al mulino un po’ per volta, in sacchi, e la farina sarebbe valsa a preparare anzitutto la pasta (“matta”) e qualche altra ricetta salata e dolce. Si svolgevano anche forme di baratto, castagne in cambio di farina bianca, olio…
Castagne, tra tradizioni, gastronomia e mestieri
Le castagne secche si cucinavano nel latte insieme al riso, o nelle zuppe dove si inzuppavano crostoni di pane strofinati con l’aglio. I contadini liguri, come noto, portavano riso dal Piemonte e dalla Lombardia come contropartita di migrazioni lavorative stagionali. Ma un pugno di castagne secche era anche dono ambito la notte della Befana, “nascosto” dentro la calza accanto alla stufa (o dentro la scarpa sul davanzale), insieme a qualche fico…
Ho personalmente contribuito alla de.co. del canestrello con farina di castagne di Montoggio, e con Stefano Torre (titolare e chef del ristorante “Roma”) all’archeogastronomia locale, castagne comprese, ho dedicato un’affollatissima, memorabile cena (nella foto, il dessert di quella serata).
Amico lettore, Ligucibario® ha quindi nel tempo ripetutamente omaggiato quest’albero così munifico e simbolico (leggi, tra gli altri, il mio articolo sulla castagna in Liguria), ma beninteso il viaggio potrebbe estendersi – come detto – verso territorialità e paesaggi ampi e dunque anche fuori Liguria, dove i ricettari autentici sciorinano gnocchi, squisiti pan martin (durante l’ultima guerra andavano a ruba a borsa nera), castagnacci, pattone, necci…, fino a quel sontuoso “monte bianco” che forse è giunto in Piemonte e Lombardia dalla vicina Francia.
Il castagno, last not least, ieri più di oggi significava mestieri, attivava lavoro: chi ne otteneva cassoni e bauli, mestoli e posate, ciotole, pale, telai, tini, forme e fuscelle da formaggio, misure (stai) per i cereali, arnie (e il miele di castagno, un poco amaro, vanta innumeri virtù, antinfiammatorie, antibatteriche…). Chi ne otteneva torchi, giocattoli, sculture per ornare gli ambienti, sovente assai spogli…
In caso di patologie della pianta, cicliche ove non ricorrenti, il contadino-boscaiolo provvedeva al taglio delle parti malate e all’innesto di nuove piante, onde consentire ai castagneti da frutto un avvenire. Tale cura dei boschi serviva anche a prevenire incendi e scongiurare alluvioni e smottamenti (bei tempi, prima che tanta stoltezza umana prendesse il sopravvento…).
I musei del castagno
Di tale sapienza materiale conservano preziosa testimonianza alcuni musei ad hoc, fra cui mi piace qui segnalare il Museo del castagno e del borlengo a Zocca (MO), il Museo del castagno di Castel del Rio (BO), il Museo del castagno di Colognora di Pescaglia (LU), il piccolo Museo dal castagno di Valloriate (CN), il Museo del castagno di Santa Lucia di Pescorocchiano (RI), il Museo della castagna di Lillianes (AO)…
Buone visite, perciò, e buon appetito.
(1) in Val di Vara (dove anche di recente sono state rivitalizzate varietà autoctone) si narra che una volta un anziano e i suoi compagni ritennero che alcuni spiriti abitassero l’interno di un castagno cavo, tuttora esistente quantunque gravato dagli anni, poiché durante la notte vi si scorgevano piccole luci azzurre…
Umberto Curti