La castagna (frutto di Castanea sativa).
Ragioni storiche di un’inclusione fra le piante identitarie della Liguria
di Umberto Curti
L’archeobotanica dei pollini ipotizzò il castagno autoctono anche dell’Europa, sin quando le glaciazioni pleistoceniche lo limitarono alla Turchia, al Mar Nero e al Caucaso (area fertile donde proviene anche la vite vinifera), ma greci e romani ne apprezzarono talmente il frutto da determinarne un ritorno ai luoghi d’origine… Questa tesi pare oggi non del tutto convincente, e occorre inoltre aggiungere che sulle castagne i greci si espressero linguisticamente in modo a dir poco “frastagliato”. Più fruibili i testi latini dell’enciclopedista Plinio il Vecchio, tenendo anche conto che le conquiste romane diffusero via via la pianta nelle terre assoggettate.
Frutto, sia come sia, ormai archetipicamente mediterraneo, in Italia appenninico-prealpino, anche la Liguria ne annovera diverse varietà (della gabbiana infatti trattò entusiasticamente già il celebre botanico finalese Giorgio Gallesio), non di rado in “comproprietà” col Piemonte, dove l’esposizione a settentrione rende più umidi i boschi…
I castagneti infatti sono, fin dal Medioevo, una costante nei paesaggi dell’entroterra ligure che s’affaccia alla Padanìa, grazie al terreno (ricco di potassio…) e al clima, il loro “ruolo” è svelato anche da leggi, statuti sulle “silve castanili” e atti notarili relativi a transazioni commerciali. Castagni, amati alberi del pane…, oggi meta di escursioni che penetrano bei boschi, magari in cerca di funghi là dove bottinano anche le api, donando poi un gustoso miele ricco di fruttosio e polline. La pianta è sovente alta e longeva, robusta, la chioma si espande ramificata, ma dobbiamo esser grati ai benedettini – ancora una volta – e ai camaldolesi che seppero ottimizzare la coltura. Sappiamo anche che i castagni furono quanto mai preziosi durante l’epidemia di peste in Toscana nel ‘300, allorché il bisogno spinse le popolazioni a spostarsi verso le colline.
Castanea sativa appartiene come genere alla famiglia delle Fagaceae. Sensibile a micotossine quali il cancro corticale e il cosiddetto “mal dell’inchiostro”, presenzia il continente sia come castagno puro, sia innestato sul giapponese, Castanea crenata (che resiste alle suddette patologie), sia ibrido dei due. Oggi è attaccato da un insetto galligeno, Dryocosmus quriphilus che ne inficia la produttività e la sopravvivenza (si veda la nota 8).
Del castagno, come si suol dire del maiale, non si butta via niente, tanto che in Valle Stura, a pochi km dalla Valle Scrivia, la parola “erburu” (albero) indica per antonomasia il castagno – altrove il fenomeno semantico avviene con l’olivo – . Le scàndole sono tegole in castagno, col castagno si fabbricano staccionate, il castagno è ottimo, come vedremo, per le affumicature… Questo legno, inoltre, essendo fortemente tannico agevola – quando occorre – i processi di acetificazione. Anticamente 20 chili di castagne potevano rappresentare – non di rado – la paga per un giorno di lavoro. Merce ormai preziosa, indagata a fondo, apprezzata a tavola con latte e latticini, poi col riso. Si macinavano immancabilmente a luna vecchia.
La raccolta delle castagne, per la quale – se abbondanti – talora intervenivano “castagnere” dai paesi vicini, avveniva dopo accurati sfalci dell’erba e concludeva il tempo del lavoro rurale, mentre l’essiccazione schiudeva il ciclo delle veglie intorno al focolare, durante le rigide sere invernali (da metà ottobre a marzo). Era ovviamente una raccolta manuale e “bacchiata”, facendo in fretta onde evitare che i frutti cascati ammuffissero e si ammalassero. Nel savonese la pinza per coglierle senza pungersi era nota come “diriccera”. Alla raccolta, più o meno accurata e selettiva (scartando gli esemplari alterati e intaccati), rito famigliare, seguivano il “ruspo” e il “rumo”, ovvero rispettivamente l’accesso ai poderi di poveri e di animali, che “recuperavano” gli avanzi.
L’essiccazione avveniva poi in monolocali rurali (detti ora tecci, ora canissi, ora uberghi, ora…) realizzati in pietra e con tetto spiovente in scandole, dotati di finestrina di carico e affiancati da un vano per gli attrezzi, quasi tutte le famiglie ne possedevano uno, e si dice che molti amori siano sbocciati grazie alla privacy che garantivano… Purtroppo, ormai ne sopravvive in alcune zone solo un decimo degli originari, diffusisi fra ‘500 e ‘800, quando le castagne secche e la farina erano scorte provvidenziali in caso di bisogno.
Come noto, l’essiccazione disidrata e rende conservabile il frutto, al riparo da muffe. È una tecnica antica, si pensi anche alle gallette, che sono pani bis-cotti, cioè fatti essiccare per privazione d’acqua. A tal fine, la castagna viene posta a strati su una graia (griglia, graticcio), a circa 2,5 m dal suolo, e pian piano affumicata, ardendo – senza soste – legno rigorosamente di castagno e pula dei frutti seccati l’anno prima. Possono occorrere, si badi bene, fino a 2 mesi di cure premurose, alimentando il fuoco anche 3 volte al giorno e rigirando bene le castagne. Il loro volume si riduce di due terzi. La sbucciatura finale (buccia = 1/5 del peso totale) non è più a mano come un tempo, ma la macchina ha il vantaggio di eseguire anche una selettiva calibratura, come avviene coi semi del cacao (oggi la tecnologia destina le castagne a cicli di lavorazione e conservazione sino a ieri impensabili). Si dicono “viette” quelle speciali castagne che superano l’essiccazione a buccia integra, lessate costituiscono un’elegante squisitezza tipica del periodo natalizio.
L’11 novembre con la farina di castagne era pronto il “pan martin”, pane scuro, contadino, in Sardegna unica risorsa al posto dei cereali sino – ancora – all’inizio del ‘900… La trasformazione delle castagne in farina poteva svolgersi a livello domestico, e dunque non soggiacere alle imposte sul macinato. Si recitavano preghiere, si giocava a tombola e a dama, si tesseva, si aggiustavano attrezzi.
In definitiva, quindi, le castagne migliori finivano sulla tavola o sulla graia, con la farina si ottenevano panelle, panisse, farinate, focacce…, le peggiori viceversa nutrivano maiali, galline…
Ci si serviva – come detto – anche del legno, per la copertura dei tetti, per le recinzioni che dividono le proprietà o accompagnano i sentieri, per fabbricare porte, mobili, vanghe. E col tannino si conciavano le pelli.
Sul castagno in Liguria nei secoli trascorsi esistono numerose prove, confermando un areale di diffusione che sovente saliva anche oltre i 1.000 m. Da attente statistiche francesi, durante la dominazione napoleonica, si evince come nell’attuale montagna genovese i castagneti occupassero ben 200.000 ettari, ovvero 3/4 del suolo messo a coltura. Fonti analoghe suggeriscono situazioni più che consimili nel restante territorio a livello regionale. Peraltro, qui e là la pianta ha attecchito anche presso il mare. Tanto che la cultivar gabbiana, così cara al Gallesio, negli anni generosi veniva esportata sino ai porti della Francia e della Catalogna.
Né par casuale che, pochi anni più tardi (1863), il primo ricettario ligure mai pubblicato, ovvero la “Cuciniera” di Giobatta Ratto, riporti numerose ricette – sia patrizie sia popolari – con castagne.
Del resto, ancora nell’ultimo anteguerra, “Un castagno ben sviluppato, di 70-140 anni, situato in luogo adatto e libero, produce annualmente da 100 a200 kg di frutta (…) Le castagne per metà dell’anno sono un alimento importante per le popolazioni, una famiglia di sei persone ne consuma da 6 a 9 quintali all’anno e da 100 a150 kg per persona. Pochi castagni bastano quindi a fornire parte importante dell’alimento per una intera famiglia durante i mesi invernali” (G. C. Brenni, L’importanza economica del castagno nel Canton Ticino e nell’Italia settentrionale, Mendrisio (CH), 1937).
Usate anche in cosmesi e medicina popolare, le castagne propongono soprattutto un elevato potere nutritivo, tanto che in cucina erano talora chiamate “il pane dei poveri” (1), a maggior ragione quando burro e zucchero non erano che miraggi, e si possono allora come oggi consumare fresche o secche (arrostite, bollite, cotte nel latte, glassate (2), di contorno a carne bianca e selvaggina, a lessi, a formaggi…). Ma “chi per vila o per montagne usa tropo le castagne, con vim brusco e con vineta sona speso la trombeta” (in effetti le castagne contengono zuccheri che talora gli enzimi digestivi non demoliscono, occorre quindi l’azione di specifici ceppi batterici, i quali però aumentano la gassosità intestinale).
La Valle Scrivia è inoltre uno dei territori dove si preparano eccellenti “castagne grasse”, piatto antico a base di cotenne, cavoli, e appunto castagne, sorta di zuppa calorica – rituale nel giorno di Sant’Antonio – le cui doti organolettiche rivaleggiano con le più celebri “cassoeula” lombarda e “choucroute” alsaziana. Ma zuppe di cicerchie (3) e castagne pare inoltre che sostentassero gli assediati già durante l’assalto dei Doria a castello Fieschi, dopo la fallita congiura di Giannettino (1547)…
Innumerevoli le proprietà curative tuttora riconosciute alla castagna, specie in senso tonificante e remineralizzante (la foglia era ritenuta soprattutto un sedativo della tosse).
La farina di castagna è poi – specie a Montoggio – sempre più alla base di preparazioni peculiari e golose come lasagnette più o meno “matte” (4), trofie, canestrelli (ormai celebri), pandolci, colombe pasquali e altri dolci da forno (5), budini, …, che affiancano ovviamente il castagnaccio, a base di farina di castagne sbucciate e seccate in forno (6).
Raccolta, essiccazione, momenti anche festosi di vita contadina da preservare, così salvando boschi e paesaggi – altrimenti invasi dalle acacie – e “rinvigorendo” anche i riti (7), le ricette, e alcune forme di microeconomia, inclusa la castanicoltura (8), le quali potrebbero tornare prepotentemente alla ribalta, oggi che molti modelli di vita paiono antitetici alla felicità umana.
Le quali, in definitiva, potrebbero affermare anche il ritorno di questa pianta, il castagno, che non a caso fu (ed è) cara anche a romanzieri, poeti, pittori…
“La castagna a Montoggio è una religione!” recita perfino il sito web di un albergo-ristorante in frazione Bromia…
NOTE
(1) e si vendevano dinanzi alle fabbriche, alle scuole…
(2) evidente rimando alla ricetta dei lionesi (o piemontesi?!) “marrons glacés”
(3) legumi caduti in disuso, grosse quantità inducono infatti latirismo, una grave patologia degli arti inferiori che può degenerare in paralisi
(4) in Liguria si dicono “matte” le paste che contengono anche farina di castagne, “avvantaggiate” le paste che viceversa contengono anche farina integrale (la quale avvantaggia = rafforza l’impasto)
(5) in tal senso la castagna (e la sua farina) è stata individuata come risorsa maggiormente identitaria del luogo rispetto ad altre proposte analizzate durante le riunioni con gli operatori: torte di verdure, trofie con farina di castagne (ormai preparati a livello industriale, anche aree Fontanabuona e Recco), prodotti a base di rose… Si veda peraltro anche l’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali del parco dell’Antola
(6) altri nomi locali e dialettali: baldino, castagnun, ghirighio, gheriglio, patona, patuna. E’ un dolce molto apprezzato anche in Toscana (documenti citano la pattona sin dal 1449, e a Siena questo dolce rappresentava un autentico “sfamafamiglie”) ed in Emilia, ma qui con le noci al posto dei pinoli. Talora, come le ballotte/balletti, si consumava il 2 novembre per i morti. Il protocollo d’esecuzione non è univoco, in genere un impasto di farina di castagne, acqua e olio d’oliva, spessore max 2 cm, va in forno almeno 35 minuti a 180°. Può completarsi – secondo le zone (nel 1644 il medico bolognese Vincenzo Tanara proponeva per i suoi “castagnazzi” varianti innumerevoli e sbalorditive) – con pinoli, uvetta, noci, scorze d’arancia candite, rosmarino, a scapito del miele. Il rosmarino valeva da filtro d’amore, difatti con il castagnaccio le giovani si facevano chiedere in spose… Il migliaccio (la parola deriva da miglio, benché oggi s’usino altre farine, in genere mais) è talora il castagnaccio di marroni, talora una torta-sanguinaccio emiliana, in Toscana una focaccia salata con uvetta, in Campania una sorta di polenta carnevalizia (dolce) al forno…
(7) si pensi alle meritorie ricerche del linguista belga Plomteux in Val Graveglia, di cui ci rimane anche H. Plomteux, Due brani in ligure orientale (la lavorazione delle olive e delle castagne), ed. Le Monnier, Firenze, 1969. Si veda anche la ricca bibliografia alla voce “economia del castagno” su www.wikipedia.org
(8) nell’auspicio che al più presto abbia successo la lotta intrapresa – in varie forme, fra cui l’utilizzo di una vespina predatrice – contro il cinipide galligeno, un malefico imenottero asiatico che, in sintesi, inibisce la fioritura e fa seccare i castagni (attualmente si tratta di una vera strage, dinanzi alla quale ci si sente ancora impotenti)
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