Oggi racconto la Bianchetta, autoctona nel Genovesato, superstite anche dove forse non la immagini, sulle colline di Val Polcevera, ad un passo sopra i trafficati svincoli della città costiera. Colline che ospitarono pascoli, mulini, orti e piccole vigne, filari più o meno ripidi e sistemati, gloria arcinota fu il cru Coronata (da columna?), oggi pressoché estinto fra il gerbido e nello skyline di fabbriche quasi sterili, ma che di fatto saliva indietro sino a Serra Riccò. Epperò Genova, a chiunque l’avesse scoperta dall’anno 1000 in poi, sarebbe apparsa tutta un vigneto lungo le coste da Sampierdarena ad Albaro, e specialmente vitata spiccava, leggiadra e senz’ulivi, la collina di Carignano…
Racconto la Gianchetta, non ignota già ai sapienti e bonvivants d’un tempo, Giustiniani (1532) Paschetti (1602) Maineri (1778) Gallesio (1839). Tantomeno al Bertolotti (“Viaggio nella Liguria Marittima”, 1834) che nominò i vigneti di Val Polcevera “con indicibile studio tenuti” enfatizzando: “La valle cui la Polcevera dà il nome è per l’unione delle naturali ed artefatte bellezze la regina di tutte le valli… Ovunque tu volga gli occhi hai per riposarli e giardini e boschetti e vigneti con indicibile studio tenuti. …è la Tempe moderna. Se i suoi vini e i suoi olj corrispondessero in bontà alla singolare diligenza e vaghezza della sua coltivazione, ed alla magnificenza delle sue ville, ella sarebbe più ricca che l’aurifera Valle di Cusco”.
Ma ne meditò anche Stendhal nel “Viaggio in Italia”, e Mario Soldati in “Vino al vino. Alla ricerca dei vini genuini” non mancò guarda caso di celebrare “la chiarità paglierina e la fragranza lievemente aspra del Coronata” che rallegrava sempre le sue ribotte genovesi e il “tirar tardi” culturale dinanzi al porto, in Sottoripa, sodale dell’ancora gobettianissimo Giovanni Ansaldo, cronista che – più d’ogni altro – lodò (correva l’anno domini 1930) le 24 bellezze della torta Pasqualina.
E non solo: nell’autunno 1975 Soldati esaurì il proprio tour più che quinquennale in Italia e, dopo i sapienziali vini di Levante, rigiunse in una Genova più degradata di come la ricordasse ma di tale (benché trascorsa) grandeur che non si sarebbe potuto tacerne i vini. E in via De Marini a Sampierdarena, alla mitica trattoria di Checcö, chef patròn e figlio dell’Ettore canzonato come “Toro” dai foresti, Soldati si fece mescere – nobiltà senza sfarzi – il vino di Begato, “bianco, lieve, delizioso, meno aspretto e meno chiaro del Coronata, ma più scivolante e più profumato (…) E, all’orecchio di Remo Borzini, che mi è accanto, mormoro la felice definizione, ch’egli ebbe un giorno a dare di questi genovesi, isole resistenti se altri mai: ‘L’aristocrazia degli umili’”. Chissà se brindò alla sua Juve in quel fumoso covo di sampdoriani.
E’ antica questa Val Polcevera, e Porcobera il suo nome osco-etrusco nella Tavola bronzea (ove si cita anche Mignanico = Mignanego) con cui Roma nel 117 a.C. definì le dispute fra le tribù Viturii-Langenses e Genuates, tramite l’obbligo di un pagamento in vino (o grano) locale, ovvero un vectigal – entrata erariale – sotto forma di baratto. Ritrovata casualmente da un contadino sul greto del torrentello Pernecco nel 1506, la Tavola è la prima testimone del latino in Liguria.
Di questa Val Polcevera ti canto la Bianchetta, d’un bel paglierino, odore gentile, preludio ad un sorso non alcolico, e secco, assai sapido, identitario, con sentori equilibrati – nell’insieme – di fiori e frutti bianchi. Da bersi fresca, giovane, allegra, perfetta com’è coi mille piatti locali (dalla focaccia allo s-ciattamaiö, pardòn il polpettone di patate e fagiolini), lo sapevano bene i camalli e i calafati del porto – ma pure gli impiegati e operai – che “brindavano” già di prima mattina, contrastando con l’acidità dell’uva le oleose teglie degli street food. Quegli stessi (focaccia farinata panissa cuculli) che ora piluccano, ungendosi le dita, turisti in estasi nel labirinto dei carruggi…
Bevila qui dove origina, dato che distribuirla e commerciarla non è poi gran business, “umile” ma “preziosa” tra la macchia silente dei primi Appennini, dove le case diradano e dove la viticoltura eroica sono vignaioli – classificarli imprese famigliari suona sin roboante – da contarsi su pochissime dita, in un’area, fra l’altro, dove la fauna selvatica assedia le quotidianità, ungulati che divorano i grappoli onusti d’acino così come le gemme, scavalcando recinzioni quasi vane. Talvolta assommano ad appena duemila l’anno le bottiglie DOC in azienda…
Ma il rimpatrio alla terra malgré tout sta divenendo tendenza concreta, rimpatrio a memorie e qualità che il cemento di Begato ha in parte compromesso, ma riaffiorano come valori simbolici (e ridestano ad una ruralità non solo ancillare verso la città, ora vicina ora lontana ma sovente matrigna). Formaggi, miele, castagne, il salame e la mostardella di Sant’Olcese, nobili tradizioni pastarie, i corzetti per la salsa di pinoli o il sugo di coniglio, i maccheroni di Natale, la pasticceria secca, il panmorone… Un tour che qui ti svelerebbe generose trattorie ma anche pievi e santuari (e fra i più amati), piccoli musei, antichi cammini del sale e “caravanserragli”, dimore in stile Tudor, e trenini a scartamento ridotto che da Genova-val Bisagno sferragliano lenti verso Casella in valle Scrivia ma via Sant’Olcese, su arditi viadotti che nei disegni del 1929 avrebbero dovuto spingersi ben più a nord…
Bevila qui, dove la domanda dell’uomo alla vite fu ed è senza forzature, quel che può donare dia, ogni annata beninteso un’alea a sé, poi in vinificazione si privilegiano la termocondizione, la sedimentazione naturale, i filtraggi tenui, zero alchimie zero fanatismi. Ed è Deogratias solo un ricordo, tendenzialmente, l’amaro che scadeva a zolfino e per cui si scomodava l’alibi della mineralità. Sentenziò non a caso, e saggiamente, il cucinologo sampierdarenese Giovanni Rebora: “La Liguria, poco più di vent’anni fa, dava vini bianchi di pessima fattura… Vini solforati secondo un uso ormai secolare (pare che siano stati gli olandesi a inventare, nel seicento, il “sorfanino”) che aveva abituato le classi subalterne a quel pessimo sapore, ma che trovavano estimatori…”.
Bevila qui, tra odori di campagna, dove ogni casa ambì ad un campo, un bosco. Ma dove molte vigne invecchiarono, invocando nuove più giovani mani, talora disposte a ripartire da zero per salvare tradizioni, a faticare per ogni ettaro una quantità d’ore decupla rispetto ad altre terre – là dove il vino abbonda quasi quanto l’acqua.
Forse, piantar barbatelle conserva sempre un quid di visionario…
Qui dove ora anche alcuni migranti stanno recuperando vigne, non a caso presso l’antichissimo santuario di Nostra Signora Incoronata (quello con le statue degli sposi Pacciugo e Pacciuga, un “noir” a lieto fine di tanti secoli orsono). Vigne come auspicio che “il vino della tradizione possa diventare davvero segno di nuovi innesti”, sottolineò Monsignor Martino, responsabile della Fondazione Migrantes che cura l’iniziativa.
E infine bevila qui, prosit, in questa valle un po’ verde un po’ non più, dove qualche inurbato ancora poi s’ostina in villeggiature estive, fuggendo la calura (o illudendosi di fuggirla) come i patrizi d’antan, senza cedere alle sirene dei voli verso esotismi sovente di plastica. Segno, pur questo, di nuovi innesti?