5 ott 2023  | Pubblicato in Ligucibario

In cucina dagli Spinola

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In cucina dagli Spinola. Un viaggio tra ‘500 e ‘900.

Palazzo Spinola di Pellicceria

Palazzo Spinola sorge in piazza di Pellicceria 1 a Genova, fra stretti carruggi, ma anche vicino all’aurea Strada Nuova, ovvero oggi la via Garibaldi, dove ha sede in Palazzo Tursi anche il Comune di Genova.

Edificato ante 1593 su preesistenze medievali per volere di Francesco Grimaldi, mercante-finanziere-condottiero di nobile casata, e subito presente nell’edizione rubensiana “I palazzi di Genova” (Anversa, 1622 (1)), Palazzo Spinola nei secoli fu – passando di mano – l’abitazione di varie famiglie nobili genovesi. Gli Spinola lo acquisirono all’inizio del ‘700, notevolmente modificandolo (approfondimenti via via sui proprietari a questo link). La “Superba” si congedava dai fasti del proprio Rinascimento, ancora riverberando la potenza mercantile anche nel benessere privato (Emilio Pandiani, “Vita privata genovese nel Rinascimento”, a questo link).

Il Palazzo fu a lungo un tesoro – come si dice – alquanto nascosto (la seconda guerra mondiale purtroppo non gli risparmiò pesanti bombardamenti, che incendiarono e distrussero stanze e camere da letto…). Dal 13 luglio 2006 figura tuttavia nell’elenco di quei palazzi, iscritti appunto nei “Rolli”, dichiarati dall’UNESCO Patrimonio dell’umanità, ed è celeberrima la sua “galleria degli specchi”, nata su una terrazza, progetto – dell’artista genovese Lorenzo De Ferrari – organico ai restauri rococò (1734-36) voluti da Maddalena Doria, moglie di Niccolò Spinola (personalità che nel 1740 divenne doge). Maddalena cui si deve quell’infilata di “moderni” salotti dove via via – nella sua visione – dovrà divenire bello abitare, ed invitare.

Fulgida dimora aristocratica sin dal ‘600 e ‘700, il Palazzo offre al visitatore – davvero fra molti altri – eccelsi lavori di Antoon van Dyck (Ritratto di Ansaldo Pallavicino), di Pieter Paul Rubens (Ritratto di Gio. Carlo Doria)… Il tour degli interni è affinato dall’ambientazione delle sale decorate da Lorenzo De Ferrari stesso, Lazzaro Tavarone e Sebastiano Galeotti. Dal 3° piano ospita inoltre, inaugurata nel 1991, la Galleria Nazionale della Liguria, coll’Ecce homo di Antonello da Messina. Vi si ammirano acquisizioni statali, rispettando il volere degli ultimi due proprietari, i marchesi Paolo e Franco Spinola (2), i quali, privi di eredi diretti, il 31 maggio 1958 infine, pochi giorni prima della morte di Franco, donarono il proprio spazio residenziale all’Italia (assieme a suppellettili, arredi, quadreria, argenti, libri di pregio), purché fosse luogo espositivo pubblicamente fruibile. Un unico vincolo, dunque: mantenere l’aspetto di antica dimora nobiliare a testimonianza della civiltà dell’abitare (eccettuati gli ultimi due piani, compromessi, come detto, dai bombardamenti, pur se celermente ricostruiti dal Genio civile). Il piano terra al tempo era presenziato da negozi.

Nei secoli della vita nobiliare, via via, le sale del Palazzo videro certamente riunioni di rappresentanza, feste con musiche e danze, cene, momenti intitolati anche solo al piacere di stare insieme… E dunque staff indaffarati, urgenze, rumori, acquisti, pulizie. Molto il lavoro da sbrigare. Le tavole da desco, di fatto, nel ‘700 non esistevano, si attrezzavano al momento (una volta appreso il numero dei convitati) tavole di legno, poggianti su cavalletti e che al termine dell’evento si smontavano, donde l’espressione in vernacolo mette a toua, e il suo contrario levâ a toua. In linea generale, quindi, non esistevano sale da pranzo “fisse”, bensì locali che venivano all’uopo resi disponibili in base all’importanza dell’occasione… E’ verosimile che le brigate di servizio di minor rango, sguatteri e servi, cui potevano esser destinati specifici ambienti, dormissero talvolta proprio nelle cucine, in cui temperature più calde (ergo le braci dei ronfò (3) che pian piano si spegnevano) attenuavano inverni di solito molto rigidi…

Sappiamo inoltre che nel 1784 un ramo della famiglia dei marchesi risedette a lungo a Roma (indicativamente durante mesi freddi). Di quel risiedere sopravvive anche un brogliaccio delle spese di cucina, poiché un maestro di casa rendicontò prezzi (ciò che svela il costo della vita in quella capitale pontificia) e impieghi dei cibi… Si tratta di uno scartafaccio, sorta di quaderno su cui registrare le uscite, che è stato trascritto e decifrato da un attento studioso – Francesco Semino – , che ha anche utilmente separato i generi acquistati. Gli usi patrizi degli Spinola rivelano peraltro una certa saudade nei confronti della cucina abituale/ligure, sia per quanto attiene alla routine quotidiana sia per quanto attiene ai pranzi fastosi e di rappresentanza. E’ comunque indiscutibile che le campagne e la zootecnia laziale fornissero loro materia prima, e carni, d’assoluto livello.

In cucina dagli Spinola. Uno straordinario viaggio “dietro le quinte” dell’abitare

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Ma ecco appunto nel “mezzanino” del Palazzo genovese, lungo lo scalone fra i piani “nobili”, quella cucina, nell’insieme accogliente malgrado il soffitto basso, che si conserva come all’inizio dell’800, verosimilmente una delle più rare testimonianze esistenti di vera cucina ottocentesca. Essa dal 1996 permette uno straordinario sguardo “dietro le quinte” – per così dire – dell’abitare e operare concreto. Il primo àmbito (“stanza della pasta”) immette alla “stanza dei fuochi”, la cucina vera e propria. L’imponente ruota di ferro con manopola sulla parete di destra attivava infatti il calapranzi con cui ascendere le portate – ove opportuno ben calde – nella soprastante sala al 2° piano, dove si muoveva il personale in livrea (nei gala una decina-dozzina di persone?), via via conformando il servizio all’elegante moda russa/al guéridon (4) . Si trattava di un calapranzi realmente innovativo, che nel 1915 Ugo Spinola (5) , padre di Paolo e Franco, il quale abitava la dimora dal 1905, fece addirittura elettrificare, per rendere meno faticoso l’azionamento.

Pur avendo già letto molti dei suoi scritti, ho conosciuto solo di recente Farida Simonetti, ospite come me ad una trasmissione televisiva. Ed è per esempio irrinunciabile, al fine di conoscere quello di cui vi parlo, il suo Genovesi a tavola nell’Ottocento. I Raggi e gli Spinola, edito da Sagep nel 2004. In quelle pagine, la cucina di casa Spinola si ravviva di cuochi all’opera, bottegai, contadini che approvvigionavano la città; in quelle pagine si apprezza l’arte del dosaggio del fuoco ai tempi del carbone quando ancora il gas era lontano, si ode il rumore dei cento arnesi con cui si cucinava al tempo (alcuni ormai in disuso), e forse con un po’ d’immaginazione si avverte addirittura l’odore (e qualche volta lo scutizzo?) delle ricette eseguite, rievocando gli usi alimentari che dalla prima e seconda colazione (pranzo) fino al pranzo (cena) caratterizzavano sia la quotidianità tradizionale sia le occasioni importanti o importantissime. Tordi, anatre, verdure, confetti, gelatine…

Un viaggio – da un lato – tra ricordi, timballi e contemporaneità, verrebbe quindi da dire, seduti fianco a fianco con una dinastia patrizia molto genovese ma dalla cosmopolita cultura, in particolare Giacomo Spinola e la sua sposa Violantina Balbi, che abitarono agiatamente il palazzo dal 1824, sodali dei Savoia e legati da un intenso sentire cristiano. Violantina era donna colta, scrittrice, artista (pittrice) dilettante, ereditiera di notevoli patrimoni di beni e opere d’arte.

Ma anche un viaggio – dall’altro lato – tra zuppe e trippe, seduti fianco a fianco con la servitù…, ed a testimonianza che alcuni piatti divennero “importanti” solo in sèguito (accade quando il presente recupera il passato).

 

Restaurata dal 1992, ovvero in quell’anno fausto che genialmente restituì alla città anche il Porto Antico (prodromico ad ogni sviluppo turistico locale), la cucina degli Spinola è allestita e custodita – come detto – secondo le forme di vita che nell’800 animavano il Palazzo, abitato appunto da Giacomo Spinola e Violantina e, successivamente, dal loro figlio Francesco Gaetano, animo sensibile, il quale fra l’altro cooperò a varie esposizioni d’arte antica in città. Va precisato che, sfortunatamente, la donazione allo Stato non comprese alcunché di ciò che rappresentava l’arredo originale (6) , ma gli storici e ricercatori attenti meritano buone fortune, sicché un attento Inventario dei beni mobili di proprietà del M.se Giacomo Spinola (archivio Spinola), redatto negli anni 1824-36 circa (1831) e strutturato in elenchi ambiente per ambiente, è risultato di grande aiuto. E le dettagliate tavole di un celebre Dizionario casalingo genovese-italiano del 1857 (quello di Angelo Paganini, consultabile ancora una volta presso la fornitissima Biblioteca Civica Berio), aggiungendo all’elenco testuale i riferimenti visivi, hanno agevolato la “ricostruzione” di quanto in quella fucina gastronomica ospitasse e integrasse i manufatti/pignatte in rame, donati munificamente da alcuni privati… La cucina, inoltre, espone anche le ceramiche a suo tempo concesse in deposito permanente dalla Soprintendenza Archeologica in quanto recuperate, nel 1990, dal relitto di un leudo – classico natante ligure da trasporto – affondato dinanzi Varazze, e che a bordo stivava stoviglie e materiali risalenti al ‘500 e primo ‘600 (ciotole, giare, bacini, pentole, brocche, boccali, tegamini).

spinola3Esploriamo ora l’ambiente in dettaglio, una cucina che – 200 anni dopo “La cuoca” di Bernardo Strozzi – sa di casa quotidiana e abitata, di piccoli pollai per disporre di uova fresche, di olio dalla Riviera (nasce a Ponente nel 1860 la “Novaro”…), e di carni e ortaggi provenienti dal Piemonte, dove gli Spinola possedevano alcuni terreni e vigneti (vinificare fu una passione di famiglia).

Le pareti sono in marmo bianco, facilmente lavabili. Si notano immediatamente il ronfò e la caldaia in ghisa, elementi di una cucina in muratura di notevole bellezza, con intatti il forno a legna, la grixella (la griglia, sotto cui bruciavano lentamente le braci), le pentole di terracotta, e in basso gli sportelli tramite cui nutrire di carbone il fuoco. I bordi appaiono piastrellati in ceramica bianca (ciapelle), assai igienici per l’epoca, un’epoca in cui molte buone prassi erano giocoforza finalizzate a facilitare una celere pulizia là dove l’abbondante carbone produceva molta càize (fuliggine), la quale anneriva tutto ciò su cui si posasse (quando l’umidità delle pareti la scioglieva facendola colare si chiamava ciugiann-a). La caldaia, un moderno correre di tubi tuttora visibili, riforniva gli attigui lavelli d’acqua calda, e grazie al piano superiore, sempre caldo, serviva pur essa per cucinare. Un interminabile piano di marmo (a ciappa dö lavellö), davvero caratteristico delle cucine genovesi, aggrega due grandi lavelli, dove infaticabilmente lavare e sciacquare (arrüxentâ), con l’acqua calda che fuoriusciva dai brönzin d’ottone, tutto quello che per i pasti si sporcasse (facendo attenzione che poi non restasse lezzo d’umido, o per meglio dire di refrescümm-e). Un lungo scolatoio consentiva infine adeguati deflussi. Si noti però che, al tempo, gran parte del centro storico di Genova ancora non disponeva d’acqua corrente…

L’ambiente è poi affollato di bottiglie, arbanelle, anfore, pignatte di terracotta dove cuocere ma anche dove conservare gli alimenti, possibili scorte preziose quando clima e mercato ostacolassero gli acquisti. Tra gli utensili in ferro ecco una paletta per raccogliere le braci, un attrezzo per sollevare i cerchi arroventati della caldaia, rampin o ferö da stiva, vari mestoli (casse) ed anche una cassarea (il mestolo bucato, schiumarola). Il girarrosto, al tempo, era detto curiosamente martin, lo spiedo spiddö. Il brustolin era un cilindro cavo per tostare il caffè.

Sull’ampio tavolo ligneo, che campeggia al centro, possono ora poggiare antichi trattati di ars culinaria, tra cui La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene dell’Artusi (1891), monumento positivista che creò un genere, e le minute di conti scrupolosamente annotati, indizio di un’attività che implicava congrui acquisti. Un cuoco, Giuseppe Macchiavello, il 24 giugno 1813 “investì” l’astronomica somma di 464 lire per strutturare il pranzo di nozze di Giulia Spinola, sorella di Giacomo, proprietario del palazzo, un banchetto durante cui servire agli invitati (si presume di stomaco bendisposto…) qualcosa come 36 portate.

Un altro cuoco, l’8 febbraio 1826, per una cena invernale progettò un inizio (tradizionale) di ravioli in brodo, cui però seguirono pasticcio di tordi, grigliada di cotolette, cappone bollito, rosto di pernice, ed infine (con una successione che oggi “contesteremmo”…) ostriche e datteri di mare. A guarnizione le trifole bianche, ovvero i tartufi migliori, trend francesizzante, chissà se nondimeno furono i preziosi albesi o quelli d’oltre confine. A fine pasto, poi, una gelatina al rhum e i canestrelli.

Una lista della spesa del maggio 1843 presenta minestra di anelotti (agnolotti), frittura composta, manzo (arrosto) con guarnizione, cotoletta con patate, timballo di maccheroni, triglie, asparagi bolliti e piselli con crostini, anatra arrosto, flanetti (piccoli flan di verdura), e budin di sabaione. Si noti che vent’anni dopo usciva la prima “Cuciniera genovese”, a cura di Giobatta Ratto, che s’inscrive in quel filone di produzione gastroletteraria ottocentesca approdante infine, nel 1991, alla notissima “Arte in cucina” di Pellegrino Artusi (7) .

Nel piccolo locale adiacente, la “stanza della pasta”, si notano un ulteriore, più piccolo ronfò, e un ulteriore lavandino. Nonché una sorta di spianatoia per impastare, come si evince dagli strumenti consueti che la “accompagnano”, ö canellö (il mattarello) e ö siassö (il setaccio), impiegato per filtrare la farina liberandola delle impurità, dato che molte farine del tempo erano “bastarde”, integrali ovvero cruscose, perché molite a pietra. Forse tale locale fungeva da cucina per il personale, o forse è una cucina ivi trasferita per ricavare spazi in altre sale migliori…

Ciò che abbiamo descritto, giova ancora ribadirlo, era tipico di mense “ricche”, di mense patrizie. Circa quelle delle classi subalterne si può ad es. ricorrere ad alcune immagini dal volume “Duché de Gênes. Costumes dessinés sur les lieux” par Antonio Pittaluga, Parigi, 1826, e al bisettimanale “La Fame”- organo delle classi diseredate, Genova 1873-1874, nonché a volumi antichi e moderni (molti sono nel catalogo della Biblioteca Civica Berio) capaci di qualche flash sulle tradizioni agro-silvopastorali ed enogastronomiche liguri, ovvero trattati di agricoltura, di botanica e zoologia, vocabolari, libri di arti domestiche, eccetera.

Inoltre, nel corso dell’Ottocento avviano l’esercizio – specie nel centro storico – molte di quelle attività che oggi sono “riunite” nel circuito delle botteghe storiche, e compongono un itinerario ormai molto gettonato anche dai turisti (link qui). Chi scrive sta lavorando ad una ampia “cronologia” dei principali eventi (politici, culturali, commerciali, ecc.) che caratterizzarono la Genova di quel secolo, e darò via via notizia – come si suole dire – dell’andamento lavori, in vista della pubblicazione qui su Ligucibario®

 

Dall’inizio del 2023, infine, sala da pranzo e cucine propongono un nuovo allestimento, anche grazie a due pregiati servizi da tavola di fine ‘800 e inizio ‘900, che appartennero alla scrittrice marchesa Camilla Salvago Raggi (1924-2022), cui colleghiamo sùbito la badìa cistercense di Tiglieto e che ha inteso donarli per testamento al museo. Uno è in blu ed oro, recante il blasone di famiglia Salvago sopra ogni pezzo, opera della manifattura italiana Richard. L’altro, di Ginori, è in terraglia bianca e impreziosito dal blasone in blu. La marchesa non era nuova a tali gesti commendevoli, avendo già in precedenza – nel 2014 – lasciato un pregiato servizio da tavola di inizio ‘800, col blasone Raggi, opera della manifattura francese Discry. Un miracolo di porcellana suddiviso in 150 pezzi, oro e azzurro, alzatine e zuppiere, una primavera di “esitanti” viole al centro dei piattini (link qui).

E pian piano nel cuore il desiderio, amici lettori, turisti e gourmet, di sedersi a Palazzo e concedersi un tè a tutte le ore, e contemporaneamente restando sospesi fuori dal tempo…

 

Note

(1) la sola facciata per com’era in origine ci viene rappresentata da Rubens, dipinta a fresco con finte quadrature architettoniche; un loggiato aperto veniva sovrastato da una terrazza poi “sacrificata” – come detto – alla Galleria degli specchi, la quale chiuse ed innalzò il corpo centrale. La ristrutturazione settecentesca delle due facciate ha cancellato sia l’aspetto nord che quello sud. Del decoro secentesco si ha conferma indiretta grazie al tardo recupero del 1993 degli affreschi del primo piano nobile, occultati nel secondo dopoguerra. Per dettagliate descrizioni, ed anche una utile bibliografia, link qui

(2) Franco fu un militare di carriera, congedato al grado di ammiraglio. Non prese moglie e visse quasi sempre nella villa di San Michele di Pagana, nel Tigullio. Paolo, di due anni più giovane ed assai più irrequieto del fratello, non terminò gli studi in chimica e dovette dunque seguire il padre Ugo nella gestione degli affari. Ebbe anche vita sentimentale piuttosto agitata.

(3) ideatore e brevettista fu il fisico-ingegnere inglese, naturalizzato americano, Benjamin Thompson (1753-1814), conte di Rumford, donde il nome ronfò (furono forse gli immigrati d’Oltreoceano a introdurre questo termine nella parlata genovese, per indicare proprio quel tipo di moderna diavoleria…). Nel ronfò si “alloggiavano” recipienti di cottura sagomati ad hoc. La combustione non avveniva più a vista, ma in modo maggiormente sicuro e salubre. Possiede uno splendido ronfò, perfettamente conservato, anche Palazzo Montanaro, lassù in salita di San Francesco 7 (area dove sorgeva un convento), bellissima dimora altoborghese in cui abitò il poeta occitano Paul Valéry, che era di madre genovese e padre corso. Tale ronfò presenta un “cappotto” di ghisa, per mantenere più a lungo il calore emesso dalla stufa centrale. Un recipiente di rame, apparentemente una pentola, una volta pieno d’acqua si scaldava per induzione dalla stufa e alimentava il rubinetto sottostante, così da disporre di una “scorta” pronta di acqua calda. Quanto all’inquieto poeta, a Genova Valéry dormì di certo almeno una notte tempestosa, ma la città gli rimase nel cuore. Quella Genova dai sentori densi, penetranti, dove il bene convive strettamente con il male, giochi di bambini e ammiccamenti di meretrici. Odori di caffè tostati, di spezie, di formaggi, di grandi torte salate, ceci e spinaci, uova sode e fritture.

(4) codificato nel 1910 da un diplomatico di stanza in Francia, e perfetto per i banchetti, nel servizio alla russa – in estrema sintesi – i cibi sono portati in vassoi e sotto cloches (oggi in pirofile…) dalla cucina su un tavolino di servizio fino in sala, dove davanti al cliente vengono poi porzionati e impiattati (dressés) dallo chef de rang (più esperto) e serviti dal commis de rang (da destra).

(5) Ugo rafforzò i patrimoni ereditati (immobiliare, terriero) tramite felici intuizioni e iniziative, favorendo anche la produzione di vini destinati all’export oltreoceano. Fu uomo positivo, sempre “sospeso” – con la moglie Solferina Serra – fra tradizione, cosmopolitismo, e attività sportive.

(6) oggetti “quotidiani” che potessero continuare ad usarsi furono compresi nella contemporanea donazione all’Ordine di Malta della succitata villa di San Michele di Pagana.

(7) ci si riferisce ai ricettari editi dall’inizio dell’Ottocento sino proprio all’Artusi (1891). Solitamente pagine poco originali e per lo più anonime, ma talora opera di insigni medici o finalmente di cuochi di professione (non più gelosi del proprio copyright ideativo), che spesso tuttavia tramandano quegli usi locali delle cucine piccolo e medio borghesi di cui altrimenti si sarebbe persa traccia. In questo periodo, difatti, fra aristocrazia e classi subalterne, anche in Italia andava ingrossandosi quel ceto che con proprie modalità via via esprimeva lo status anche a tavola. E l’obiettivo di raggiungere tale target avrebbe poi indotto autori ed editori, da Artusi in poi, a privilegiare il volgare toscano “sciacquato” dal Manzoni, e specularmente a limitare i termini culinari francesi. Tra quei ricettari, vanno almeno menzionati La nuova cucina economica di Vincenzo Agnoletti (Roma, 1803), Il Nuovo cuoco milanese economico di Giovanni Francesco Luraschi (Milano, 1829), La cucina teorico-pratica del cavalier don Ippolito Cavalcanti duca di Buonvicino (Napoli, 1837), di cui si ricorda l’appendice in dialetto napoletano, in cui vengono proposti specificamente piatti dal sapore popolare, La cucina sana, economica ed elegante di Francesco Chapusot (Torino, 1846), il Trattato di cucina, pasticceria moderna di Giovanni Vialardi (Torino, 1854), e appunto La cuciniera genovese ossia la vera maniera di cucinare alla genovese di Giambattista (in seguito anche con Giovanni) Ratto (Genova, 1863)… Essi sono anche indiziari di gusti differenti tra un Sud dove prevedibilmente dominano pasta, pomodoro e olio d’oliva, e un Nord dove si affermano riso, polenta e burro. La lingua è in genere cosparsa di dialettismi e ancora francesismi, che rendevano un poco disagevole la fruizione da parte di un pubblico realmente vasto e diversificato. Basti leggere le accuse mosse al Vialardi dallo “scapigliato” Olindo Guerrini (alias Lorenzo Stecchetti) che, in un elogio ad Artusi, definiva “incomprensibili” molti ricettari precedenti a quello, non solo per i vezzi lessicali, ma anche per la scarsità di consigli pratici; e terminava: «Per trovare una ricetta pratica e adatta per una famiglia bisogna andare a tentone, indovinare, sbagliare. Quindi benedetto l’Artusi!” (per approfondimenti link qui)

Umberto Curti

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