13 nov 2023  | Pubblicato in Ligucibario

Dolceacqua fa lezione per i GAE

Dolceacqua (IM)

Dolceacqua (IM)

Dal 13 al 17 novembre si tiene la XX edizione della “Settimana della bioarchitettura e della sostenibilità”, un evento che, purtroppo, impegni di lavoro “ammassati” m’impediscono di seguire con l’attenzione che vorrei dedicargli. Fra i temi trattati figurerà, non a caso, anche quello delle comunità energetiche rinnovabili, tramite un webinar giovedì 16, tema che anch’io trattai nel mio Sostenibilità e biodiversità. Un glossario, pubblicazione ottenibile gratuitamente da alcuni mesi a questo link.

Nel “frattempo”, proseguono presso F.Ire, ente formativo di Genova, le mie docenze nella 3^ edizione (le prime 2 hanno costituito un oggettivo successo…) del percorso formativo per Guida Ambientale Escursionistica, percorso che al superamento dell’esame finale rilascia la qualifica abilitante alla professione.

Tra i Comuni della Liguria già coinvolti in progetti di Comunità energetica appare Dolceacqua (IM), in sinergia con le piemontesi Magliano Alpi e Carrù, entrambe in provincia di Cuneo.

Di Dolceacqua in aula abbiamo già conversato molto, essendo uno dei 10 luoghi dell’Imperiese interessati dall’Alta Via dei Monti Liguri. Si tratta di un borgo vivo, meraviglioso, che incarna al meglio tutte le caratteristiche della mediterraneità ponentina, e che “sedusse” artisti della levatura di Claude Monet. Il ponte a schiena d’asino sul torrente Nervia, il soprastante castello dei Doria, i carruggi fioriti, il favoloso Rossese DOC sia in versione base che superiore…, immagini di una realtà sfaccettata, che il turista ed escursionista consapevole, slow, sensibile ai valori della biodiversità non solo ambientale, porterà con sé incise nel cuore.

In aula io converso coi corsisti di territorio, di antropologia, di marketing turistico…, ma al contempo io “sono” Ligucibario®, e dunque di Dolceacqua ho esplorate negli anni anche tutte le tradizioni enogastronomiche, e direi proprio tutte tutte. Una cucina rurale, che genialmente ha reso creativa la frugalità.

Mi riferisco, talora in comprensibile “condivisione” coi borghi limitrofi (e amici Lettori ve le propongo per comodità in ordine alfabetico), ai barbagiuai (frittelle salate di zucca e brüssö, ogni cucina di casa una ricetta diversa?), ai bigareli (grumetti di pasta “stracciata” cacciati nel brodo, magari rileggendo qualche pagina di Sandro Oddo), al brandacujùn (stoccafisso – più che baccalà – ridotto a crema in unione ad altri ingredienti, “scuoti pirla che più scuoti e più vien buono!”), al brodu verdu (zuppa/passato di verdure), al pungente brüssö (ricotte e paste di formaggi fermentati, Cesare Pavese ne mangiava in corso Po a Torino), all’insalata detta canarosi (valeriana rossa), al carteletu (quarto anteriore del capretto, farcito, se ben ricordo lo cucinava anche “Vittorio” a Recco), ai ciui (lumache, sovente col riso), al coniglio (cuniu, alla carlona, stufato con… “quel che si ha in casa”, il vino sia preferibilmente Rossese), alle crocette (di fatto michette più burrose), alle cucarde (frittelle, bugie, ogni regione d’Italia dà loro un nome originale), al cundiun (condiglione di verdure crude, ma…senza galletta né tonno), all’erbun (torta di zucca, tritata e mixata ad altri ingredienti…), ai frescioi (friscêu, finger food con cui ungersi ben bene le dita), alle frittate (di patate e zucchine, Cristoforo Colombo permettendo…), al fugasun (torta di erbe/verdure di stagione, con riso a dar sostanza), agli gnocchi di pane (con pane di riciclo bagnato nel latte che si aveva, strizzato e asciugato in padella con una presa di burro. Si condisce con biete bollite e tritate, uova, formaggio e maggiorana. L’ impasto poi si amalgama in palline, da sbollentare e infine condire con burro fuso e formaggi: gnocchi si lega non a caso a knoedel→canederli…), alla grissa (celebre pane da lunga lievitazione, in varie versioni), alla celeberrima michetta (sorta di brioche tondeggiante, e allusiva del castigo riservato a un Don Rodrigo locale che esigeva lo jus primae noctis), all’olio evo di monocultivar taggiasca (drupa da olio e da mensa, poca polpa tanta generosità), alla pasta cun a bagna o pasta russa (sorta di pizza, sardenaira con sugo di pomodoro lasciato un po’ lento), al pistu (un pesto, guardando anche ai dirimpettai provenzali), ai pomodori (pumate) secchi (golosamente imbarattolati con olio e basilico), ai ravioli col pessigu (“pizzicati” uno per uno in fase di chiusura, a forma di caramella), al salame dolce (di solito pan di spagna con confetture o marmellate, cosparso di zucchero a velo, pensare che il mondo intero chiama il pan di spagna pâte génoise…), alla salsa agra (pelati cotti in aglio, olio e prezzemolo, infine con sale e aceto, salsa che accompagna specialmente pesci e verdure), alle sciu(r)e cene (fiori di zucca ripieni, sovente di purea di verdure), allo stucafì (stoccafisso, v. anche brandacujùn, “regalo” del naufragio veneziano di Pietro Querini alle isole Lofoten, anno domini 1432…), alla tacunà (pastafrolla “rattoppata”, con confetture o marmellate), e – da ultimo ma non ultime – alle trote.

Dunque, dalle aule del percorso GAE3…buon appetito!

Umberto Curti
smart

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