15 nov 2023  | Pubblicato in Ligucibario

Assedio a castello Fieschi, Montoggio

castello fieschi a montoggio

castello fieschi a montoggio

Il castello di Montoggio fu dapprima il segno tangibile del potere dei Fieschi e poi, distrutto dai Doria, della loro sconfitta e “scomparsa”. Di questa dinastia “guelfa” – come i Grimaldi – e filo-francese, che diede al soglio pontificio anche due Papi (il dinamico Innocenzo IV dal 1243 al 1254, e Adriano V per soli 38 giorni nel 1276), ho scritto ripetutamente, leggimi ad es. a questo link . E ricorre sovente nelle mie lezioni agli allievi del corsi per Guida Ambientale Escursionistica, svolti presso l’ente formativo F.Ire di Genova. Col Comune di Montoggio anni fa ho lavorato ad alcuni progetti di valorizzazione turistico-gastronomica, sempre un po’ sorpreso di come nell’entroterra ligure si fatichi a fare “sistema e marketing”. Eppure, santuari e quadrerie, passeggiate e tradizioni, cibi e botteghe di qualità anche a Montoggio non difettano, ma occorre “formarsi” – come si suol dire – al nuovo che avanza. In tal senso, molta ruralità ligure è a rischio.

Ma torniamo lassù al castello, che come vedremo sarà, anno domini 1547 (la Lanterna ha assunto da appena 4 anni il suo aspetto definitivo), location perfetta per un thriller storico… Una Bolla papale di Adriano IV (unico pontefice britannico della storia) risalente al 1157 confermava al Vescovo di Tortona alcuni possessi fra cui un “Castrum Montem Obblum”, il che dimostrerebbe come nel XII secolo la struttura fosse già più che esistente, benché altro non si sappia. Dopo alcuni veloci passaggi di mano (i Malaspina e i Doria), essa divenne fliscana verosimilmente tra la fine del ‘200 e la metà del ‘300. Nel 1386 la possiede Antonio Fieschi, il figlio del celebre Niccolò, ovvero una signoria che s’estendeva anche su Torriglia in val Trebbia, Pontremoli (MS), Borgo Val di Taro, Calestano e Vigolone (PR). Si badi che fra Liguria, basso Piemonte e val di Taro sono ben 21 i Comuni da me censiti, rurali e no, a vario titolo caratterizzati – specie lungo transiti commerciali o corsi d’acqua… – da castelli, palazzi, possedimenti riconducibili ai Fieschi (e non a caso, durante gli scontri del 1547, da tali luoghi tentarono di accorrere piccoli drappelli in soccorso degli assediati…). Nel ‘400 fu fortilizio interessato dagli scontri fra Genova e Ducato di Milano tanto che nell’ottobre 1430, per breve lasso di tempo, fu conquistato da reparti ducali meneghini al comando di Nicolò Piccinino, famoso capitano di ventura perugino, che forse morì avvelenato e fu sepolto nel Duomo di Milano. Verso la fine del ‘400 il castello di Montoggio via via consolidò le proprie caratteristiche, un po’ massiccia piazzaforte un po’ accogliente residenza patrizia. Sicché Sinibaldo Fieschi e la consorte Maria di Bartolomeo Grosso della Rovere, madre di Gianluigi e dei suoi fratelli (nonché nipote del papa “cellasco” Sisto IV), lo elessero a vera e propria dimora, lasciando il palazzo – con annesso giardino – di via Lata a Genova Carignano, presso la bella chiesa romanico-gotica, oggi sconsacrata ma inconfondibile per la facciata a fasce bicrome… Eretto a 609 m sulla sommità di un’altura (in loc. Sorriva Inferiore) che sovrasta l’abitato e sorveglia Scrivia e commerci, secondo un orientamento di crinale est-ovest, il castello presentava verso ovest un ingresso in forma di fortilizio a sé (architettura usuale per i tempi), donde si approcciava la piazza d’armi, perimetro in cui si raccoglievano truppe e artiglierie. Piazza che veniva difesa da alte mura merlate su cui numerose feritoie di varia ampiezza consentivano ai difensori di osservare l’esterno ecc.. Completavano il tutto le stalle e altri spazi di servizio. In fondo alla piazza d’armi, ma oltre un fossato, spiccava la cosiddetta “cittadella”, ovvero la porzione principale del castello, e tendenzialmente la più antica?: disposta su più piani, proponeva una pianta quadra di circa 30 m per lato, e quattro torrioni irrobustivano gli angoli. Al centro, una quinta torre a pianta circolare a due piani, detta “torre de mezo”, che ospitava due comode stanze su ogni piano. L’abitato di Montoggio costituì a lungo per i Fieschi, in sinergia con le terre d’Oltregiogo(1), un bacino di beni e di uomini, dove trovar riparo durante le contese e le precarietà di vario genere che periodicamente caratterizzavano, e condizionavano, gli equilibri feudali del tempo. Non troppo vicino a Genova, in quei saloni però certamente si tenevano – sovente in segretezza – conciliaboli politici importanti, per dirimere le questioni urgenti e delicate, al fine – con gli alleati – quantomeno di influenzare le sorti genovesi e di riflesso lo scacchiere degli eventi internazionali. In questo, i Fieschi non erano soli, contando volta per volta su re, duchi, Papi. Sono peraltro anni difficili: 1527 sacco di Roma, 1529 assedio di Vienna…
Nel 1547, infine, nel castello prese forma per così dire l’uscita di scena del casato (già in ambasce economiche e spesso perdente nel confronto coi Doria), uscita di scena che poi rappresentò il tema centrale anche di una nota tragedia in 5 atti di Friedrich Schiller, poeta e filosofo tedesco, il quale – appena ventitreenne – scrisse nel 1782-1783 Die Verschwoerung des Fiesko zu Genua, fra l’altro ritraendo il leader degli insorti come un campione della libertà(2)… Ma ricostruiamo quei fatti: dopo la morte quasi assurda (per annegamento nel porto, scivolando da un pontile) del conte Gianluigi Fieschi il Giovane (sordo agli ammonimenti e alle preghiere della moglie che intendeva dissuaderlo dall’impresa), e il consequenziale tracollo della cospirazione volta ad assassinare Giannettino Doria(3) e specialmente il principe-ammiraglio Andrea Doria (sodale militare e finanziario di Carlo V), il fratello minore Gerolamo Fieschi dové correr via da Genova e coi suoi fidi riparò proprio fra le mura del castello di Montoggio, che pertanto si presume godesse fama di inespugnabilità. Nel frattempo il corpo di Gian Luigi, ripescato dal mare, fu lasciato ben due mesi appeso in darsena a decomporsi e poi rigettato in mare per impedire che venissero celebrati i funerali. L’11 marzo del 1547 il governo della Repubblica genovese – grazie anche a truppe corse, spagnole, toscane… – avviò l’assedio, poiché Gerolamo non intendeva capitolare né tantomeno consegnare il fortilizio in cambio di 50mila scudi. Per via del maltempo e dei percorsi assai disagevoli (i Giovi vennero preferiti alla salita più breve ma impervia di Creto) l’allestimento del campo e delle artiglierie costò a Genova l’intero mese di aprile. Il valente architetto militare milanese Giovanni Maria Olgiati (che per Andrea Doria progettò nei primi anni ’30 anche le nuove cinte di mura), su incarico di Genova raggiunse il luogo e ubicò le artiglierie in località Costa Rotta sopra Granara e poi anche in località Olmeto (casa della cornaggina), a circa 1 km di distanza dal castello e alla stessa altezza, di modo che i tiri avessero maggior effetto. Fra le mura Gerolamo Fieschi disponeva di circa 150 tra uomini d’Appennino e mercenari, nonché di numerosi pezzi di artiglieria di vario calibro e d’una cinquantina di balestre da banco(4), quindi però una dotazione impari rispetto al nemico, coi suoi 2500 armigeri ed i suoi 40 e più pezzi di artiglieria. Nei tre mesi del sanguinoso assedio vennero sparati, come noto, più di 12mila colpi, i quali tuttavia non danneggiarono oltremodo la piazzaforte, e Genova subì notevoli perdite e perfino l’irrisione dei nemici, sicché si prefigurava uno stallo… L’11 giugno alcuni mercenari, forse una trentina, ormai provati anche dalla penuria di viveri, e demotivati in quanto non remunerati, permisero però ad un drappello di genovesi guidati dal capitano Sebastiano Lercari di penetrare all’interno, ciò che ormai impose a Gerolamo di arrendersi senza condizioni. Il 12 luglio, dopo un sommario giudizio, egli fu decapitato insieme ai suoi uomini più fidati presso la romita cappelletta di San Rocco, mentre altri fra gli sconfitti furono scannati, impiccati, incarcerati, esiliati…, sia come sia nessuna pietà, vae victis, e fu ovviamente raso al suolo anche il palazzo Fieschi di via Lata a Carignano così come “mutilata” l’attigua chiesa.

cappelletta di san rocco a montoggio

san rocco a montoggio

Nel settembre il castello, per disposizione del Senato genovese, venne infine minato e fatto brillare, ma le mura si rivelarono talmente spesse che gli artificieri impiegarono altri due anni per rendere definitivamente inservibile il solido manufatto. Da quel momento, non se ne videro che i pochi ruderi del corpo centrale e di un torrione laterale, in un contesto d’abbandono lassù progressivamente dominato dalla vegetazione infestante (quanto ai Fieschi, poterono ancora governare solo su alcune aree secondarie, a macchia di leopardo, ad es. nel 1685 acquisirono il castello-torre di Senarega a Valbrevenna, sebbene su tale data non tutte le fonti concordino). Il torrione verso il bosco, sopravvissuto sebbene non in toto, raggiungeva tramite un corridoio quello di San Rocco, a nord–est, poi totalmente crollato. Le due torri, più esposte, erano specialmente armate, e “8 smerigli a cavalletto, 16 archibugi, 4 sagri di metallo su ruota (i sagri sono grossi pezzi da campagna) e altre artiglierie, con 700 palle di pietra di diverso calibro” le rendevano in effetti ardue a conquistarsi. Valide documentazioni cinquecentesche hanno poi permesso agli archivisti di conoscere la disposizione degli spazi interni (prima che combattere, in un castello si deve infatti vivere). Nella cittadella, dunque, ecco a piano terra i locali dove la servitù disponeva di vaste cantine e di grosse botti e barili, della cisterna dell’acqua, un forno completato da una madia su cui impastare, quattro “tavole da pan”, setacci e pale, infine la cucina, con dispense, credenze e valide attrezzature: secchi in rame, piatti, spiedi con cavalletto, padelle “bone” e “cattive”, ramaioli, mortai e pestelli, griglie per arrostire alla brace, una padella forata per le caldarroste (l’area è tuttora nota per le castagne), e scodelle in terracotta. Vi immaginiamo dunque scene di quotidianità. Al piano superiore almeno tredici differenti ambienti garantivano in ogni senso la privacy del proprietario e dei suoi famigliari, nonché spazi di rappresentanza quali un salone, intiepidito dal camino, che fungeva anche da sala dei banchetti, in cui ricevere i visitatori e diplomatici graditi. Bei mobili e arredi ingentilivano le permanenze, fra pregiate tovaglie di damasco e corredi col particolare ricamo del gatto, simbolo araldico dei Fieschi (“gatto! gatto!” pare fosse anche il loro grido di battaglia)… Alcune stanze infine vantavano decori con policrome piastrelle spagnole, lo si deduce dai notevoli frammenti di azulejos rinvenuti nella zona nord e adesso custoditi presso il “Museo Archeologico Alta Valle Scrivia” di Palazzo Spinola, ad Isola del Cantone (inaugurato nel 2013), in via Giardino 2. Il castello di Montoggio è raggiungibile con una semplice salita in mezzo alla natura di circa 20 minuti. Buona escursione!
Umberto Curti

(1) con il termine Oltregiogo ci si riferisce ad una regione storica e geografica posta fra Liguria e basso Piemonte. Prevalentemente appenninica, coinvolge 4 province: Genova, Alessandria, e parzialmente anche Piacenza e Pavia. Anticamente faceva parte della Repubblica di Genova, e tuttora rivela profondi legami col capoluogo ligure. La località più importante e popolosa dell’Oltregiogo è Novi Ligure, altri centri importanti sono Ovada, Gavi…

(2) Schiller non è, per così dire, un unicum. Iacopo Bonfadio, nato a Gorzano sulla riviera di Salò verso il 1500, scrisse fra le altre cose gli Annali della Repubblica di Genova, dove nel IV libro narrò la congiura di Gianluigi Fieschi. La Conjuration du comte Jean-Louis de Fiesque è un’opera storica scritta attorno all’età di venti anni dal memorialista francese Jean-François Paul de Gondi, cardinale di Retz (1613-1679), pubblicata anonima una prima volta a Parigi nel 1665, e di nuovo postuma (1682), con alcune variazioni. Carlo Tedaldi-Fores nel 1829 scrive I Fieschi e i Doria. Tragedia istorica, in cui ascrive a Agostino Bigelotti di Barga l’uccisione di Giannettino Doria, e Bigelotti riuscì a scampare alla ritorsione dei Doria. La congiura dei Fieschi è un film di genere drammatico del 1921, diretto da Ugo Falena, con Goffredo D’Andrea e Silvia Malinverni… Più ai giorni nostri, disponiamo infine della saggistica di Gabriella Airaldi, Daniele Calcagno, Aldo Boraschi, Arturo Pacini… La tragedia di Tedaldi-Fores nel 5° atto, al momento scenico della morte di Giannettino, vede Gerolamo Fieschi chiedere al Bigelotti, nominato Barga: “Che fai tu?” E Barga risponde: “Preparo un convito alla morte”. L’azione si sta svolgendo alla porta di S. Tommaso e Giannettino da fuori, pensando che all’interno vi siano i “filospagnoli”, urla alle guardie alla porta un perentorio comando: “Aprite! Or son tutti nel sonno sepolti?” Prontamente si apre il portello e una volta entrato con un suo paggio Giannettino esordisce dicendo: “Un fragor cupo dalla Darsena intesi … ti avrien spezzate le catene? … O forse fra i miei soldati è rissa e quei del Conte? Nessuno è qui? Per Dio! … Così obbedito di Genova è il Signor?” In quel mentre il canovaccio prevede un colpo di archibugio che raggiunge alla fronte Giannettino, il quale stramazza a terra, mentre il paggio si volge alla fuga. La breve azione vede ora Cangialancia con la sua alabarda aprire il cuore a Giannettino dicendo: “Un altro colpo … E un altro, e questo ancor, mostro! … Va, narra alla mia sposa ch’io t’apersi il core, e che l’ho vendicata”. Gerolamo Fieschi, rivolgendosi infine a Barga gli dice: “Invidio, o Barga, si egregio fatto alla tua man! … Vedete! Come squarciata è la sua fronte, a terra s’inchina!”

(3) svegliato e insospettito da clamori e spari provenienti dal porto (si veda qui anche la nota 2), Giannettino (cui Andrea Doria aveva delegato non poco potere, come intuisce già nell’Ottocento lo storico Carlo Varese) si avventurò per la città senza scorta verso la porta di san Tommaso ma venne riconosciuto e ucciso (forse) da Ottaviano Fieschi e dai rivoltosi, da un colpo di archibugio o di scure. Andrea Doria riuscì viceversa a sellare un cavallo e rifugiarsi rocambolescamente a Masone, ospitato dagli Spinola

(4) la balestra da banco è un unico pezzo di legno (noce o ciliegio…) chiamato teniere, dove s’incassano vari componenti in acciaio oltre ovviamente all’arco. Le sole parti mobili fanno parte del meccanismo di sgancio, composto da una noce con cui si aggancia e si tende la corda dell’arco, e dalla leva di sgancio utilizzata per smuovere, al momento debito, il perno all’interno della noce, onde liberare la corda e scoccare il tiro.

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