28 feb 2012  | Pubblicato in Oleario

La storia, Giovanni Rebora e l’olio

Oleario, gli olii di LigucibarioE’ la prima volta che scrivo di Giovanni Rebora, dato che in questi anni ne hanno parlato e scritto in tanti. E’ però verosimile che io l’abbia conosciuto prima rispetto ad alcuni di coloro che in questi anni ne scrivono e ne parlano.
Fresco di maturità, negli anni 82-83 frequentavo da matricola l’università di lettere e filosofia, già allora appassionato di cucina e tradizioni. Non poca parte del mio piano di studi guardava a “Balbi 6″ (così chiamavamo l’istituto di storia moderna e contemporanea), là in cima alle rampe di scale, luogo dove t’imbattevi in Salvatore Rotta, esame di storia moderna, in Raimondo Luraghi, esame di storia americana, in Antonio Gibelli, esame di storia contemporanea….
E – appunto – in Giovanni Rebora, esame di storia economica. Il quale, in quel periodo, festeggiava già vent’anni d’insegnamento accademico, e traguardava l’importante convegno internazionale sulla dieta mediterranea (Cultura e storia dell’alimentazione) che si sarebbe tenuto a Imperia, i cui Atti uscirono negli anni successivi. Andai a parlargli una volta durante l’orario di ricevimento studenti, sottoponendogli un’idea di ricerca sulla tipicità nella ristorazione ligure, idea che forse gli parve ingenua o vaga (oggi ammetto di buon grado che possa aver avuto ragione), e non se ne fece nulla. Seguendo alcune sue lezioni ebbi la sensazione che se fino a quel momento l’alimentazione aveva costituito solo uno dei suoi interessi di studioso, teso a spulciare i documenti e ad indagare le attività umane del passato per trarne riflessioni di natura socioeconomica, via via il cibo e il vino stessero sempre più divenendo l’oggetto centrale della sua indagine, lo strumento privilegiato per analizzare sotto una luce nuova alcuni fenomeni commerciali e dunque politici (e dunque culturali). L’esame con Rebora non rientrava nel mio piano di studi, ma sovente presenziai ai suoi corsi, grazie ai quali scopersi – possiedo ancora alcuni appunti “originali” – un determinismo deogratias non arido, e grazie ai quali avvicinai storici-economisti come Fernand Braudel, Carlo Maria Cipolla, P. Vilar, I. Wallerstein, M. Sanfilippo, Jean Claude Hocquet. Non tutti, purtroppo, sono fra noi, Rebora stesso è mancato 7 anni or sono. Chi non ha letto i lavori di Braudel può comprendere a fatica la vera natura ossimorica – in qualche modo eterna e cangiante – del Mediterraneo. Carlo Maria Cipolla aveva pubblicato da poco Le avventure della lira, testo utilizzato anche da Romeo Pavoni per l’esame di Numismatica, sfragistica e araldica. E Hocquet, in particolare, andava allora approfondendo il ruolo delle saline e del sale negli equilibri mediterranei e come risorsa irrinunciabile per il potere di Venezia.
In tale ottica, Rebora – sampierdarenese, quindi ligure verace – si occupò evidentemente anche di olio. Come noto, s’attribuisce ai cenobi e in particolare alla solerzia benedettina la salvezza – anche in Liguria – di questo alimento, e degli uliveti, durante i secoli medievali progressivamente interessati dalla calata barbarica/longobardica e dall’esodo delle popolazioni verso gli entroterra. Rebora – benché il Muratori nelle Antiquitates Italicae fornisca un elenco di abbazie fra cui Brugnato assai attive quanto a coltivazioni*… – contestò tale ipotesi, a suo dire leggendaria. In Civiltà della forchetta** attribuì ai religiosi un ruolo più marginale (olio come elemento rituale in taluni sacramenti), viceversa individuando nel mercantilismo trecentesco e dunque bassomedievale il motore che rilanciò l’oliva sia come cibo della mensa e sia come olio. Pare forse riduttivo “finalizzare” l’alacrità dei benedettini, fra l’altro veri maestri (non dico inventori) dei terrazzamenti, delle bonifiche, della falegnameria, ad un olio solo rituale, e perciò è plausibile che entrambe le visioni vantino degne fondamenta. Secondo numerosi studiosi, si deve ai benedettini, agronomi senz’altro lungimiranti, anche l’introduzione in Liguria – chissà quando, chissà da dove – della cultivar taggiasca. Certamente, dal ‘300 l’olio figurò nelle voci redditizie dell’export ligure, non tanto – come ovvio – in partenza dal porto di Genova verso altre sponde del Mediterraneo, bensì verso l’Europa del nord, ovvero l’area dello strutto e del burro (intrasportabile da fresco, sottolinea acutamente Rebora, ergo raro, costoso, élitario…). Genova non a caso incentivò la messa a dimora di ulivi e la “formazione” dei coltivatori in termini di salvaguardia delle piante dalle più diffuse patologie, contribuendo al progressivo affermarsi di un paesaggio che è ancora cifra tra le più ammirevoli della regione. Il grasso ha sempre rappresentato un graditissimo usbergo contro la fame quotidiana e le periodiche carestie, e ciò che è valso lato sensu tuttora comprende anche l’olio, apprezzato dai gourmet ma meno rischioso degli altri grassi per il nostro organismo…
“Balbi 6″, dicevo… Mi piacerebbe – quia impossibile est – salire quelle scale con le mie gambe d’oggi, e rigodere di quelle lezioni, di quei libri, i giorni scorrono troppo veloci, la giovinezza rende talora troppo giovani.

* presumiamo la presenza anche di vigne, fichi…
**ed. Laterza, Bari, 1998, forse il suo testo più compiuto, lettura pressoché irrinunciabile a chiunque s’occupi di etnogastronomia

Umberto Curti, Ligucibario®

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