Durante “los siglos de oro” della genovesità, piazza Caricamento fu il luogo dove sbarcarono o salparono le merci migliori del mondo. Il porto e i traffici rappresentavano il cuore pulsante di una città “superba” e verticale, nata non a caso fra il seno naturale del Mandraccio e la collina di Castello (Sarzano).
Da quell’import-export originarono – come prevedibile – scoperte enogastronomiche e ricette importanti.
Fronteggiavano le navi (le portacontainer dell’epoca) una palazzata di edifici porticati e un retrostante dedalo di vicoli, dove via via cominciarono a operare ristori e “fast food”, che presero dialettalmente il nome di sciamadde, fainotti, törtae. Ad un certo punto (nell’Ottocento) rivaleggiarono coi cadrai, chiatte o grossi gozzi che portavano cibi e vegetali freschi direttamente agli equipaggi dei vascelli, sfiniti dalle navigazioni * .
Sciamadde, fainotti, törtae.
Sciamadde in quanto vi ardeva sempre la fiamma dei forni. Fainotti in quanto detenevano sacchi di varie farine, che poi trasformarono in teglie di farinata ed altro. Törtae in quanto alcuni si specializzarono in commoventi torte salate, a base di vegetali pre o post-colombiani (bietole, zucchine, cipolle, riso, melanzane, porri, patate, zucche…), nonché in polpettoni e tegamate di verdure ripiene.
Questi ristori sfamavano tutte le manovalanze, specialmente camalli, che incrociavano il centro storico e i suoi dintorni con poco denaro in tasca, ma in sèguito i tavoli s’affollarono anche di bohémiens, letterati, giornalisti… Uno spaccato di varia umanità che sovente dava vita – tra un gotto di nostralino e l’altro – ad accese discussioni sui massimi sistemi e sul destino del mondo.
Difficile descriverli, e rappresentarne l’atmosfera. Occorre sedervisi e mangiare, abituarsi agli arredi spartani, all’odore forte del fritto, al vociare, alle caraffe di vino sfuso, oppure ai cartocci di cuculli e panissette ove si opti per il take away, piluccando i cibi di strada con le dita unte e col naso all’insù, per ammirare i palazzi patrizi, gli scorci di soffitti affrescati, e le edicole votive.
Dopo il declino degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, queste trattorie alla buona sono tornate in auge, rianimando i caruggi e rifocillando frotte di operai (la clientela consueta), ma ora anche di turisti, di studenti delle vicine Facoltà universitarie, e beninteso di buongustai d’ogni età, provenienza e “reddito”. Con focaccia, friscêu, stoccafisso, baccalà, acciughe, polpi…
La casbah genovese, coi suoi saliscendi chiaroscurali, sarebbe del resto – se compiutamente “rassettata” e promossa – una risorsa turistica senza eguali (scrigno com’è di storia, arte, architetture), e una passeggiata dello shopping senza fine, vera lode a Hermes-Mercurio, il dio dei commerci. Insegne d’epoca, botteghe policrome, contaminazioni culturali, artigianato, mediterraneità, semi e spezie, trippe, frutta candita e mostarde, cioccolato, caramelle, saponi, i mortai per le salse…, tutto il contrario dell’ipermercato anonimo, della globalizzazione di massa che ci sta privando di colori, odori e gusti.
In via San Vincenzo, isola pedonale presso la stazione ferroviaria di Brignole, ma anche antico collegamento tra il levante cittadino e la Porta Soprana, s’incontra al 64rosso l’Ostaja che, per decenni, tutti chiamarono “Guglie”, il nome del celebre proprietario.
Il locale è suddiviso in 3 ambienti, con una vetrina che affaccia sulla strada e che calamita l’attenzione dei passanti. Dopo il primo ambiente, dominato dai prodotti in vendita e da alcuni bei tavoli di marmo, ecco il forno a legna, “moloch” capace di ingoiare e restituire le decine e decine di gloriose teglie in rame, diametro 90 cm, dove anzitutto s’arroventa la farinata, l’oro di Genova. Infine, più avanti, la vera e propria sala, vari tavoli di diversa dimensione ma accomunati da una mise en place…senza orpelli, del resto le sciamadde sono così, baccano compreso, prendere o lasciare.
Le ordinazioni “dipendono” dalle lavagnette affisse alle pareti, che riportano anche i prezzi (equi), anche all’Ostaja è sempre bene concentrarsi sui classici da sciamadda, che più classici non si può, e su qualche ricorrente piatto “del giorno”, senza stravaganze e perciò appetitoso (gnocchi col pesto, minestrone, totani fritti, cima alla genovese, salsicce allo spiedo…).
Io, da parte mia, adoro i mix di torte di verdure e il polpettone, circa i quali mi consento sommessamente un piccolo suggerimento al cuoco, pardon a-ö turtâ: sfoglia un po’ meno tenace, e qui e là qualche fogliolina di maggiorana in più, dopotutto la “persa” è uno dei vanti della cuciniera genovese.
Da Genova, buone sciamadde e buona Ostaja a tutti.
Umberto Curti, Ligucibario®
* i cadrai erano “Dria”, “Ruscin”, “Gianello” e altri, un catering ante litteram a disposizione di marinai che per mesi si erano nutriti di galletta, olive, acciughe, fave e castagne secche e poco altro. L’offerta degli osti-nocchieri poteva prevedere minestrone, ma anche gnocchi, buridda… Al centro del natante dominava il pentolone, e lungo i bordi i piatti fondi, le “xatte”, donde l’usuale espressione genovese che allude proprio ad un’abbondante piattata di minestrone. Va da sé che il minestrone dev’essere spesso e sodo, tanto da reggere dritto e ben verticale il cucchiaio…
Bellissimo post! Condivido tutto quanto avete scritto !
Buona serata
Grazie e complimenti per il bel sito!