8 nov 2023  | Pubblicato in Ligucibario

Una focaccia a Santa Margherita Ligure

100Quand’ero ragazzino, mio padre mi regalò (fors’anche incuriosito dal titolo) “L’orso sogna le pere”, che Mondadori pubblicò nei primi anni ’70 del secolo scorso. Fu così che conobbi il giornalista-scrittore sammargheritese Vittorio G. Rossi, che viaggiò – soprattutto per mare – il mondo intero, instancabilmente raccontandolo, ma al tempo stesso rimase uno dei più affettuosi cantori della sua terra (una targa lo celebra nel borgo natio, dov’è anche sepolto, e qualcosa di lui – oggetti, libri, quadri – si “recupera” in un piccolo meritorio museo allestito a Villa Durazzo Centurione). Giramondo ottimista, ingegnoso artista, Rossi adorava ed evocava le tradizioni delle genti dei luoghi. E, da buon ligure, il suo rito del mattino prevedeva a fügassa. Quella che cuoce nelle “lame”, alta 1 cm e poco più, tutta “bucata” in superficie, avvolta nella carta che s’unge subito fra le dita. Street food per eccellenza (come la farinata, i friscêu, le panissette…) da gustare magari in riva a qualche mare, una striscia (circa un etto) ove si sia morigerati, una slerfa ove si sia più ghiottoni (quanto al resto, alcuni berranno cappuccino, altri Vermentino…). E in occasione delle novene per i morti, ecco poi anche a fügassa cö-e pörpe, ovvero con piccoli frammenti di olive sopravvissuti alla spremitura, delizia mediterranea.

Scrive Rossi in Maestrale, 1976, la sua penultima opera:

“Il mio fornaio ha una parte importante nella mia vita spirituale, più di tanti libri che ho letti e non mi hanno dato niente, non sono riusciti a diventare me; sono rimasti libri. La focaccia del mio fornaio ogni mattina è come una cosa nuova, come devono essere le cose che non restano fuori ma entrano dentro; come una donna che si ama; e ogni mattina la focaccia del mio fornaio diventa me. Essa è la nostra focaccia ligure, niente a che fare con le pizze cosparse di condimenti; essa è una delle cose più semplici che ci sono, semplice come l’acqua di sorgente; è pasta di farina, sale, olio; è cotta nel forno, su una lamiera di ferro rettangolare; ha lo spessore di un dito mignolo, anche di meno. Con la punta delle quattro dita lunghe di una mano, il fornaio la copre di buchi; in essi si raccoglie l’olio di oliva, come le lacrime di un pianto, ma è un pianto di gioia. La focaccia bisogna mangiarla appena esce dal forno; allora brucia le mani; ha tutto il suo olio vivo, sano e caldo; la carta bigia e porosa che accoglie il prodigioso rettangolo si imbeve subito di olio; e bisogna mangiarla camminando lentamente, come se si pensasse alla fondazione del mondo, e non si deve pensare a niente, solo alla focaccia che si sta mangiando. E se si è in vista del mare, è meglio ancora: allora la focaccia si condisce anche di mare. E per questo bisogna mangiarla da soli, senza nessuno accanto, neanche il più grande amore; un etto e mezzo di focaccia può sostituire nella storia di un uomo molte cose spirituali, almeno a quell’ora del giorno”…

E ancora:

“Quando c’era la Novena dei Morti, mia madre ci portava alla novena; era ancora notte, non c’erano neanche i primi segni dell’alba; si usciva nell’aria fredda di novembre, gli occhi pieni di piombo, alzarsi dormendo, fare i primi passi dormendo, imbattersi in quell’aria, sentire come una ferita e poi entrare nella chiesa coi lumi e le preghiere. E poi lei ci portava nel forno appena aperto, c’era la “focaccia con le polpe”. Era calda, nerastra, piena d’olio; c’erano dentro i piccoli pezzi di polpa di olive spremute nel frantoio e adesso ogni tanto mi tornano quelle mattine buie di novembre, quella luce tremolante che faceva chiaro ai morti e il sapore oliato e caldo della focaccia, e mia madre che amministrava quelle nove mattinate di cerimonia funebre, e riuniva i vivi e i morti, e le preghiere e la focaccia, come se tra il mondo di là e quello di qua lei sapesse, senza dubbio alcuno, quello che c’era, e come bisognava comportarsi”.

Quando, nei corsi e altrove (e talora insegno proprio all’ITS in Villa Durazzo Centurione…), mi domandano cosa sia in concreto il turismo esperienziale, ogni volta – anziché rispondere in prima persona – vorrei proporre in lettura brani come questo… Magie (e di magie questo tempo ha profondamente bisogno).
Umberto Curti
smart

Commenta