Quand’ero ragazzino, mio padre mi regalò (fors’anche incuriosito dal titolo) “L’orso sogna le pere”, che Mondadori pubblicò nei primi anni ’70 del secolo scorso. Fu così che conobbi il giornalista-scrittore sammargheritese Vittorio G. Rossi, che viaggiò – soprattutto per mare – il mondo intero, instancabilmente raccontandolo, ma al tempo stesso rimase uno dei più affettuosi cantori della sua terra (una targa lo celebra nel borgo natio, dov’è anche sepolto, e qualcosa di lui – oggetti, libri, quadri – si “recupera” in un piccolo meritorio museo allestito a Villa Durazzo Centurione). Giramondo ottimista, ingegnoso artista, Rossi adorava ed evocava le tradizioni delle genti dei luoghi. E, da buon ligure, il suo rito del mattino prevedeva a fügassa. Quella che cuoce nelle “lame”, alta 1 cm e poco più, tutta “bucata” in superficie, avvolta nella carta che s’unge subito fra le dita. Street food per eccellenza (come la farinata, i friscêu, le panissette…) da gustare magari in riva a qualche mare, una striscia (circa un etto) ove si sia morigerati, una slerfa ove si sia più ghiottoni (quanto al resto, alcuni berranno cappuccino, altri Vermentino…). E in occasione delle novene per i morti, ecco poi anche a fügassa cö-e pörpe, ovvero con piccoli frammenti di olive sopravvissuti alla spremitura, delizia mediterranea.
Scrive Rossi in Maestrale, 1976, la sua penultima opera:
“Il mio fornaio ha una parte importante nella mia vita spirituale, più di tanti libri che ho letti e non mi hanno dato niente, non sono riusciti a diventare me; sono rimasti libri. La focaccia del mio fornaio ogni mattina è come una cosa nuova, come devono essere le cose che non restano fuori ma entrano dentro; come una donna che si ama; e ogni mattina la focaccia del mio fornaio diventa me. Essa è la nostra focaccia ligure, niente a che fare con le pizze cosparse di condimenti; essa è una delle cose più semplici che ci sono, semplice come l’acqua di sorgente; è pasta di farina, sale, olio; è cotta nel forno, su una lamiera di ferro rettangolare; ha lo spessore di un dito mignolo, anche di meno. Con la punta delle quattro dita lunghe di una mano, il fornaio la copre di buchi; in essi si raccoglie l’olio di oliva, come le lacrime di un pianto, ma è un pianto di gioia. La focaccia bisogna mangiarla appena esce dal forno; allora brucia le mani; ha tutto il suo olio vivo, sano e caldo; la carta bigia e porosa che accoglie il prodigioso rettangolo si imbeve subito di olio; e bisogna mangiarla camminando lentamente, come se si pensasse alla fondazione del mondo, e non si deve pensare a niente, solo alla focaccia che si sta mangiando. E se si è in vista del mare, è meglio ancora: allora la focaccia si condisce anche di mare. E per questo bisogna mangiarla da soli, senza nessuno accanto, neanche il più grande amore; un etto e mezzo di focaccia può sostituire nella storia di un uomo molte cose spirituali, almeno a quell’ora del giorno”…
E ancora:
“Quando c’era la Novena dei Morti, mia madre ci portava alla novena; era ancora notte, non c’erano neanche i primi segni dell’alba; si usciva nell’aria fredda di novembre, gli occhi pieni di piombo, alzarsi dormendo, fare i primi passi dormendo, imbattersi in quell’aria, sentire come una ferita e poi entrare nella chiesa coi lumi e le preghiere. E poi lei ci portava nel forno appena aperto, c’era la “focaccia con le polpe”. Era calda, nerastra, piena d’olio; c’erano dentro i piccoli pezzi di polpa di olive spremute nel frantoio e adesso ogni tanto mi tornano quelle mattine buie di novembre, quella luce tremolante che faceva chiaro ai morti e il sapore oliato e caldo della focaccia, e mia madre che amministrava quelle nove mattinate di cerimonia funebre, e riuniva i vivi e i morti, e le preghiere e la focaccia, come se tra il mondo di là e quello di qua lei sapesse, senza dubbio alcuno, quello che c’era, e come bisognava comportarsi”.
Quando, nei corsi e altrove (e talora insegno proprio all’ITS in Villa Durazzo Centurione…), mi domandano cosa sia in concreto il turismo esperienziale, ogni volta – anziché rispondere in prima persona – vorrei proporre in lettura brani come questo… Magie (e di magie questo tempo ha profondamente bisogno).
Umberto Curti