Oggi, per molteplici e note ragioni, la nostra cultura prova per il mondo arabo un sentimento ambivalente. Tuttavia l’apporto islamico all’Europa d’età medievale (secoli XI-XIII) fu intenso in molteplici direzioni, e coinvolse arte e architettura, chimica e medicina, agricoltura, astronomia, matematica, musica, linguaggio, tecnologia, tessitura… Di precipuo rilievo, poi, in Europa s’affermarono le traduzioni arabe di antichi testi classici greci, fra cui quelli del filosofo Aristotele. Tanto che secondo alcuni il cosiddetto Medioevo islamico espresse una netta preminenza in termini di progresso civile, scientifico e culturale…
L’eredità araba nella cucina ligure
Ma chi si occupi di storia dell’alimentazione sa – senza stupirsene – che dagli arabi è anche provenuta alla nostra cucina un’importante messe di ingredienti e d’usi: la pasta (anche ripiena, fritta…) * , gli agrumi, la canna da zucchero (che fra l’altro addolciva i “sherbet” di neve dell’Etna), l’attitudine per la frutta secca, per le spezie, per l’alambicco da distillazione, le tendenze all’agrodolce, e forse lo stesso biancomangiare, quella crema di latte e mandorle macinate che oggi risulta contemporaneamente estinta e superstite. Mandorle che non a caso ritroviamo anche nei marzapani e torroni (ieri, come al presente, dolci da banchetto e da festività).
Liguria, terra di agrumi
La Liguria fu a lungo terra di agrumi, che non di rado i coltivatori avviavano verso Genova per la trasformazione. Verso la fine del ‘400 in città erano attivi 67 laboratori artigianali di canditura, che facevano capo ad una Consorteria dal rigoroso statuto, creatasi nel 1487 anche per normare il settore. A livello etimologico, non si può prescindere dall’arabo qandi, parola che allude al succo di canna da zucchero concentrato dentro cui le frutta si schiariscono. E durante il Medioevo venne in voga anche il verbo confettare, esteso anche a quei semi d’anice o finocchio che, zuccherati, aprivano o chiudevano i banchetti…
Nel dicembre del 1548 il principe Filippo d’Austria, partito da Genova alla volta di Milano, sostò nel castello di Gavi dove (seguiamo lo storico genovese Luigi Tommaso Belgrano) gli venne imbandito un lauto rinfresco ufficiale – ergo espressamente a cura della Repubblica di Genova – che sciorinò zuccate, pignolate, cotognate, paste di persiche, confetti e susine di zucchero preparate dalle monache di San Silvestro.
Genova e l’arte della canditura
L’arte di candire squisitamente le frutta, e di cristallizzare fiori quali le violette (celeberrime quelle di Villanova d’Albenga) ** , fu riconosciuta a Genova perfino da Denis Diderot e Jean-Baptiste D’Alembert, i quali menzionarono nella loro innovativa Encyclopédie la perizia degli speciarii/confiseurs genovesi. Prosperarono via via, dunque, botteghe altamente specializzate, fra cui Romanengo, “tempietto sacro alle dolcezze palatine e alle ore del giubilo”, il quale ormai s’avvia a compiere 245 anni di vita aziendale, e grazie al quale i ricercatori – sempre in cerca di brogliacci, ricette, bolle, fatture… – recuperano documentazione d’archivio idonea a ricostruire parte dell’economia e dei commerci del tempo *** .
Nel 1838 operavano a Genova ancora 34 fabbriche confettiere, dialogando anzitutto con Grasse, la città dei profumi…
La cuciniera genovese di GioBatta Ratto: un mondo di dolcezze
Nel 1863, ovvero 28 anni prima dell’Artusi, viene data alle stampe “La cuciniera genovese” di GioBatta Ratto, opera che avrà un radioso futuro di ristampe e alla quale Ligucibario® ha ripetutamente dedicato spazi, preferendola a quella di Emanuele Rossi del 1865. Fra le dolcezze coerenti a quanto andiamo approfondendo vi compaiono pasticcini con la marmellata (i “cobeletti”), budini “biancomangiare” (ricetta n. 439), caramellati, anicini, croccanti, ciambelle di pasta di mandorle (“canestrelletti”), numerosi “quaresimali”, numerosi biscotti **** , alcuni canditi, varie frittelle, e una cornucopia di torte (d’arancio, di mandorle…) a cui talora non far mancare spezie… Questo bendidio ovviamente si arricchiva a Natale (ma anche a Capodanno e all’Epifania) del pandöçe, molto amato e corroborante, ricetta a base di pasta madre, precedente al panetùn di Milano, tanto che alcuni scomoderebbero come ascendenza il Paska, un “rito” persiano dalle molte analogie, fra cui ancora una volta la frutta secca e candita…
Nella celebre Inchiesta agraria Jacini (1877-1886), tesa ad inquadrare esaustivamente lo status quo dell’agricoltura italiana, e talora le miserande condizioni della classe contadina, si scopre poi come a Savona si fosse insediata nel 1877 un’importante impresa la quale trattava frutti da cui si confezionavano canditi assai esportati, si trattava evidentemente di chinotti, che fra l’altro avevano meritato riconoscimenti alle Expo di Parigi e Philadelphia (1876)… L’etimo dell’agrume rinvia alla Cina, da cui provenne grazie ad un navigatore savonese del ‘500. L’impresa era la Silvestre-Allemand, francese in quanto fondata nel 1780 ad Apt, nella Vaucluse (oggi regione PACA), non lontana da Avignone. Anche per questa vicenda rimando il lettore a Ligucibario®, qui il link diretto.
* i primi pastifici a Palermo furono arabi, la dominazione in Sicilia durò quasi 3 secoli, dalla progressiva conquista nel periodo 827-902 sino alla resa di Noto dinanzi ai normanni nel 1091…
** ma, come noto, si possono candire anche verdure, semi…
*** …ma Romanengo già a metà ‘800 vantava gloriosi trascorsi. Antonio Maria avviò l’attività con una bottega di droghe e coloniali in via della Maddalena. Due figli avviarono poi due botteghe in Campetto e un laboratorio per frutta candita e confetti – genere in cui la città, come detto, eccelleva – nonché per sperimentare le innovazioni dei chocolatiers d’Oltralpe. Nel 1829 Pietro Romanengo registrò in Camera di Commercio ed Arti la “Pietro Romanengo fu Stefano”, e a metà Ottocento si restaurò la bottega di Soziglia del 1814, autentica perla che per struttura e arredi rivaleggiava coi concorrenti parigini (ed è oggi non a caso meta di visite guidate)
**** antichissima (1593…) l’usanza dei ”Lagaccio”, che origina un biscotto tagliato di sbieco, profumato dai semi di finocchio tritati finemente, salubre e assai conservabile