Al corso GAE – Guida Ambientale Escursionistica, presso l’Ente F.Ire in Genova, è salito in scena His Majesty il pesto. La salsa più nota della Liguria (e, col pomodoro, del mondo) ha infatti consentito ancora una volta di sviluppare uno storytelling funzionale ad alcuni temi corsuali.
Come costruire lo storytelling del pesto fase per fase
Per creare le fondamenta dello storytelling, gli allievi sono stati “ingaggiati” prima in un brainstorming, con cui aggregare i principali significati e valori popolarmente attribuiti a questa ricetta, e poi in un questionario, con cui approfondirne tutti, ma proprio tutti gli aspetti, con particolare riferimento ad alcuni connotati storici (il mortaio in area mediterranea, la nascita delle serre di basilico…), gastronomici (i polifenoli aromatici, le caratteristiche migliori degli ingredienti…), e di promozione del territorio (le 2 DOP, i formati di pasta locale, l’abbinamento enologico…). Perché il buon cibo è terroir, è ambasciatore, è marker identitario, e il turismo gastronomico è per natura – sebbene io non sia fra coloro che abusano di questo aggettivo – “esperienziale”.
Infine, nel corso della prossima lezione completerò questo focus sullo storytelling del pesto guidando un’agile degustazione “live” per condividere con l’aula – chiamando all’opera la vista, l’olfatto, le papille… – l’aspetto, il profumo, il gusto, la persistenza e l’equilibrio del prodotto (un top di gamma) acquistato per il test. Costruiremo così una sorta di pentagono organolettico grazie a cui rappresentare l’area delle qualità riconosciute al pesto in esame.
Storytelling e publick speaking – istruzioni per l’uso
Ancora una volta, dunque, il pesto – pur adorato – si è in parte rivelato un conosciutissimo sconosciuto, e proponendo questa “esercitazione” sullo storytelling ho semplicemente inteso sottolineare come il public speaking a cospetto di un’audience, di un gruppo, di uno specifico target (adv, giornalisti, buyer, foodblogger…), imponga la perfetta conoscenza e declinazione di un tema.
Le professioni del turismo che si svolgono sulla front line (la linea del fronte!) vengono non a caso definite “ad alta intensità di contatto”, high touch, perché un’interazione è incontro ma talora anche “scontro”. Sentirsi a proprio agio padroneggiando quel che si descrive è la strada migliore per evitare ciò che persino gli attori e i musicisti temono, e che chiamano “trac”, sorta di timor panico, di ansia da prestazione quando il palco fra un attimo li attende. Un gruppo è, come noto, una forma di intelligenza collettiva, e un’entità a sé (specie se affiatato e coeso), ed ascoltarlo, “intervistarlo”, insomma usare compiutamente le 2 orecchie che madre natura ci ha donato, consente di interpretare bene i suoi needs (bisogni) e wants (desideri), per cucire un’accoglienza su misura, un’ospitalità personalizzata, ad hoc…
Nello storytelling i fattori interculturali (stereotipi, gesti, tabù, colori) si sommano oltretutto ad aspetti legati al linguaggio non verbale, alla comunicazione corporea, che sovente esprime i contenuti e le aspettative assai più di quella verbale. Scriveva significativamente il filosofo bostoniano Ralph Waldo Emerson (1803-1882) “ciò che sei urla così forte che quando parli non riesco a sentirti”… C’è dunque un marketing operativo che si pratica minuto per minuto a contatto col cliente, sul campo, just in time, calibrando il lessico, sintetizzando piacevolmente quel che abbiamo da narrare (k.i.s.s. = keep it short and simple), predisponendo checklist/scalette mentali per graduare metodologicamente i contenuti (a.i.d.a. = attenzione interesse desiderio adesione), al fine di coinvolgere chi abbiamo di fronte. Tutto ciò ancor più varrà quando saremo meno in forma, meno pronti alla performance.
E, ove necessario, attivando strategie di gestione delle lamentele e dei reclami (complaints), da cui può dipendere una fidelizzazione – con tutti i benefici che comporta – oppure un passaparola devastante (oggi deleterio anche e soprattutto online, a causa di chat e recensioni subito virali).
Va da sé che una professionalità si costruisce anzitutto ponendosi in gioco, e in discussione, potenziando le proprie capacità ma anche intervenendo sui propri limiti. Sovente ci s’imbatte tuttavia in persone poco sorridenti, poco empatiche, dai modestissimi know-how, che recriminano contro il fato avverso e beffardo anziché analizzare le cause dei propri insuccessi.
Lunga vita al pesto, dunque, che ci permette così tante riflessioni e storytelling e…così frequenti piaceri all’ombra della Lanterna e dintorni (sempre che la materia prima sia quella giusta e venga trattata col rispetto che merita…).
Umberto Curti