8 mag 2025  | Pubblicato in Ligucibario

Il vino a Valbrevenna

uve a orco feglino (sv)

uve a orco feglino (sv)

 

 

 

 

 

 

 

 

Riccardo Poggio, mio ex (brillante) allievo nei corsi GAE e persona innamorata della Valbrevenna, mi ha inviato un articolo, assai stimolante e subito pubblicato su BioVoci (link qui), relativo alla viticoltura “eroica” che dal 1700 si praticava in quell’entroterra genovese. Valbrevenna, in particolare, è un abitato antico – e conservatosi green – di circa 740 abitanti, case sparse sulle colline, noto anzitutto per il santuario della Madonna dell’Acqua in frazione Molino Vecchio e per alcune tradizioni gastronomiche, pienamente liguri, fra cui le formaggette (vaccine e caprine), ortaggi e frutta, minestrone e polenta nei mesi più freddi, torta baciocca, ravioli, le “castagne grasse” ovvero castagne-cuighe-côi (un secolo fa agivano una dozzina di mulini per castagne…), ricette col coniglio e col cinghiale, canestrelli, mieli e frutti del bosco… Il tomassu, in particolare, era la prescinsêua, la cagliata, che nelle aree rurali sovente fungeva da breakfast.

ll torrente Brevenna nasce dal monte Antola (1.597m) e confluisce nello Scrivia ad Avosso, presso Casella, dopo un breve percorso di circa 15 km. Percorre tuttavia piccoli paradisi da hiking e biking, fra mulattiere e immancabili muretti a secco (da Piancassina si sale classicamente a Lavazzuoli e poi all’Antola con circa 100 minuti di cammino). Valbrevenna fu a lungo fliscana (donde l’utilizzo del medievale castello di Senarega), e il Comune si costituì dopo svariate vicende storiche solo nel 1898, peraltro in un periodo di spopolamento in quanto cresceva purtroppo l’emigrazione – ligure oltre che genovese – verso le Meriche (emigrazione che successivamente si orientò alle industrie della città di Genova). Oggi l’economia rurale dà qualche segno di ripresa, tenendo conto che alcuni giovani stanno ribellandosi alle globalizzazioni e riconsiderando mestieri e modelli di vita che talora parevano del tutto estinti.

Quanto all’articolo di Riccardo Poggio, affettuoso tributo a realtà (siano di ieri o di oggi) che sempre troveranno spazio su BioVoci, esso, accennando al nibbiêu da-ö peigöllö rössö, conferma un’ampelografia ligure complessa e vivace. Personalmente, molti anni fa, presentando a Toirano il mio “Il cibo in Liguria dalla preistoria all’età romana” (link qui), mi trovai dinanzi a varie persone del luogo che non riconoscevano i tanti vitigni locali cui accennavo loro, salvo uno che – così mi fu detto – dava una botta di metilico… E di recente mi sono imbattuto in uno “Sciactrac” del 1964, prodotto dal cav. Armando Ansaldo a Riomaggiore, che è – udite udite – un pinot noir liquoroso…

Poi, ovviamente, alcuni vitigni – e alcune vigne – sono scomparsi per via anzitutto di 3 cause: a)la loro delicatezza e/o scarsa resa; b)la tragica fillossera, che anche in Liguria inferse alcuni colpi di grazia; c)l’insostenibilità economica, poiché produzioni troppo piccole non potevano garantire quel rapporto costi/benefici che è storicamente “appannaggio” di altri (in primis in Piemonte e Toscana).

E’ pur vero che l’istituzione delle DOC, sul modello delle AOC francesi, a partire in Liguria dal Dolceacqua (1972), pur con alcuni limiti ha indotto una diversa sensibilità verso il vinificare bene, e poi ha favorito la riscoperta di alcune varietà dimenticate, fra cui il Moscatello di Taggia a ponente e lo Scimiscià a levante. Come sempre, l’auspicio di Ligucibario® è che, senza fanatismi e senza aggettivazioni discutibili (ancestrale, resiliente…), si possano produrre in Liguria vini sempre più puliti, piacevoli, e – oso dirlo – idonei talvolta a ripristinare coltivazioni là dove esse erano un tempo, prima che le accelerazioni e le turbolenze della contemporaneità le obliterassero. L’entroterra ligure, mi raccomando, richiede strategie (e momenti formativi) al passo coi tempi, non demagogia un tanto al chilo…
Umberto Curti

Umberto Curti

Umberto Curti

 

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