Viaggiare come una volta, e rispettando l’ambiente… Ligucibario® ci prova, direzione Abbiategrasso, ma l’”intercity” Ventimiglia-Milano ci lascia a Pavia con 30 minuti di ritardo, e perdiamo la prima coincidenza, per Mortara. La seconda tratta viaggiamo su di un gasolione d’epoca, un po’ maleolente e torrido, la cui sola nota positiva è la gentilezza della capotreno, che ci rassicura circa la puntualità, così da non perdere anche la seconda coincidenza. La terza tratta da Mortara ad Abbiategrasso fila liscia senza intoppi.
Perché ad Abbiategrasso? Perché già il nome rinvia alla fertilità dei suoli, e di solito alla fecondità della terra s’abbina la fecondità spirituale di coloro che la abitano. E poi per continuare – lontano dai “turisdotti” – l’esplorazione di un’Italia cosiddetta di provincia ma nel senso migliore del termine, appartata e laboriosa, ricca di tradizioni, e in questo caso sulle tracce di una grande storia feudale, agraria e gastronomica (Abbiategrasso non a caso appartiene al circuito delle “città slow” e ogni autunno organizza la riuscita manifestazione “Abbiategusto”).
L’arrivo nella cittadina è all’hotel “Nuovo Italia”, confortevole tre stelle ad un passo dalla stazione ferroviaria e a mezzo passo dal magnifico Castello visconteo. La matrimoniale costa 70 euro a notte, incluso il breakfast mattutino, peraltro abbondante (ottimi la purea di mele ed i croissant). Sistemate le valigie ci avviamo per il tour de la ville, costellata di bei palazzi patrizi quattro-settecenteschi, fra cui le imperdibili Casa Pianca Albini e Villa Rusca Sanchioli, quest’ultima con giardino pubblico. Abbiamo fame, ma purtroppo capitomboliamo dentro un XXX (taccio il nome per carità di patria) dove i “vini” rossi sono tutti in frigo e, all’occorrenza, nei bicchieri si mescolano tipologie diverse. Come non bastasse, il mio odora di tappo come se vi si fossero riunite tutte le armillarie mellee del mondo, e i toast “sparano” una nota acidula, dovuta, io presumo, a salse precedentemente colate sulle piastre del tostapane. Paghiamo, senza mangiare né bere quel che ci viene servito, e usciamo subito.
Due passi in centro (piazza Marconi è un salotto di portici tre e cinquecenteschi) e terminiamo la giornata alla “Osteria Santa Maria”, nell’omonimo, quietissimo vicolo.
Locale di fascino, splendida accoglienza, mise en place impeccabile, buona cucina, significativa carta dei vini, conto senza patemi. Luisa opta per la tartare di manzo varzese e per il riso Carnaroli al salto con pancetta affumicata, frutta e riduzione al vin brulé, io per il flan di broccoli con fonduta di Taleggio DOP e per il bollito misto (4 pezzi) con salsa verde, kren, e mostarda di Barbieri. Nei calici l’indovinato Barbera “Terra” di Walter Massa, vigneron cui si deve qualche decennio fa anche il recupero d’un nobile e oggi celebrato vitigno a bacca bianca del tortonese, sua maestà il Timorasso.
L’indomani, dopo la colazione mattutina in albergo, rieccoci in centro. Al Castello visconteo e ai suoi affreschi riserviamo ovviamente un centinaio di foto, il Naviglio grande fu reso navigabile dopo il 1270, esso alimentava proprio il fosso di protezione del borgo, sino al Castello. Che peraltro sostituì quello più antico, che s’ergeva presso Santa Maria Vecchia e venne distrutto dal Barbarossa nel corso di scontri del 1167. L’attuale Castello, parzialmente abbattuto nel ‘600 (si salvò, benché mutilata, solo una torre su quattro), ha goduto di un attento restauro nel 1994. D’interesse anche la pietra miliare romana del IV secolo posta nel cortile, rinvenuta nel 1944 a Robecco sul Naviglio.
Santa Maria Vecchia, romanico millenario in pieno centro, non è visitabile.
Poi è però la volta di Santa Maria Nuova, tardo gotico d’origine trecentesca, col bellissimo quadriportico e l’assertivo pronao. L’interno, a tre navate, ha subito nei secoli interventi massicci, che lo hanno reso più luminoso.
A pranzo ci sediamo al “Torkio”, in via Misericordia, brasserie di garbo dove il menu è il trionfo della carne. Il locale propone anche birre artigianali e vini delle colline circostanti. Le porzioni sono misericordiose quanto la via, all’inizio rosicchiamo un po’ di “nachos” col guacamole, poi Luisa opta per la tagliata con rucola ed io per l’hamburger con patatine, il vino è un allegro merlot da vigne non lontane. Servizio premuroso ed efficiente, conto nuovamente senza patemi, e per i più affamati ci sono fiorentine e stinchi da togliere il respiro.
Nel pomeriggio ci dirigiamo – come perderlo? – al Convento dell’Annunciata, distante solo 8-9 minuti a piedi dal Castello visconteo.
Sorse nel ‘400 per un voto del duca Galeazzo Maria Sforza, ed è stato amorevolmente restaurato nel decennio 1997-2007. Il luogo, “varcata” una facciata austera per non dire spoglia, è di una solennità raccolta. Gli interni ospitano un ciclo di affreschi – sulle storie di Maria – mirabilmente recuperati, e l’esterno regala un chiostro silenzioso, di eleganza nitida e lucente, che induce alla meditazione. Tornati verso il downtown, Luisa mi guida alla teeria “Tete à thè” in via Santa Maria, luogo dove approfondire innumerevoli thé, tisane ed infusioni. Luisa opziona un “Tuareg”, thè verde con menta nana. Deliziosi anche i succhi di frutta fresca, io un po’ assetato focalizzo un profumato mela&zenzero, che si rivela scelta azzeccata.
A cena torniamo alla “Osteria Santa Maria”, dove Luisa spariglia le scelte della sera precedente e si concede il tagliere di affettati (puro artigianato senza additivi né budelli artificiali), serviti con cetrioli in cocotte, e poi la guancia di manzo all’extravergine con polenta integrale del Ticino. Io sperimento gli gnocchi col sugo “alla genovese” (1) e la ricotta morbida, poi confermo il bollito. A fine cena Alisia, la proprietaria, ci racconta di sé e di Mirko, il cuoco, sono lì da alcuni mesi dopo un lungo “tirocinio” nel Milanesato. Giovani, appassionati di gastronomia, concepiscono il cibo come momento di convivio e relazione. Quando sentiamo Alisia affermare che “non si finisce mai di apprendere” comprendiamo di poterla avere accanto a noi nella – mai vinta né vincibile – battaglia contro i guru che sanno già tutto, e che col loro esoterismo da iniziati allontanano le persone dai reali significati del desinare… La “Osteria Santa Maria”, fraterno lettore, è un luminoso esempio di ospitalità e di “narrazione” del cibo, che ti consiglio di non perdere. Mi permetto solo un piccolissimo suggerimento ai titolari, che potrebbe ancor più confermare il loro lavoro sulla strada dell’eccellenza: un amuse-bouche (per ingannare l’attesa e l’appetito) quando il cliente aspetta l’arrivo della prima pietanza comandata, si può trattare di un piccolo flan, di una fetta di salame, di una verdura ripiena, di una “panissa” fritta (voilà i miei natali liguri!)… Quando, come nel caso di Alisia e Mirko, la professionalità e l’entusiasmo non difettano, ci si può sbizzarrire senza timori.
La breve vacanza-weekend purtroppo volge già al termine, ma l’indomani urge una sosta alla pasticceria “Besuschio” in piazza Marconi, dal 1845 un tempio da gourmet dove, grazie al succedersi di 5 generazioni, assaggiamo un caffè perfetto, e due paste di rara grazia. Il locale disvela magnifiche architetture interne, e un’antologia di lievitati, pasticcini, praline, mousse, macarons e torte che ammaliano la vista prim’ancora del palato (una torta in vetrina ha geometrie alla Mondrian). Se disponibile, va poi provato anche il “pan meino”, dolce locale di farina di meliga che suggeriscono di bagnare nella panna liquida ben fredda. Felicitazioni, Italia di provincia!
Avendo il tempo, ma ad Abbiategrasso abbiate tempo, si possono infine anche ammirare, appena fuori città, nel borgo di Castelletto, il Palazzo Cittadini Stampa e la Casa del guardiano delle acque, che testimoniano l’importanza delle antiche navigazioni commerciali, da e per Milano.
Ora le rotelline del trolley filano, già con un po’ di saudade, verso la stazione, ma Trenitalia ci consentirà di acciuffare a Pavia il “frecciabianca” delle 13.38 per Roma?
Post scriptum per i più curiosi: sì, ce lo consentì.
Arrivederci, dunque, nella prossima città (binari permettendo)!
Umberto Curti, Ligucibario®
(1) sul menu il sugo è “napoletano”, ma mi permetto di suggerire che a Napoli è ricetta apprezzatissima la pasta con la cosiddetta “genovese”, ovvero un sugo di carne che probabilmente vi fu “portato” nel ‘400 da marinai o mercanti o tavernieri genovesi…
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