Noi Genovesi quando dobbiamo recarci a Milano o all’aeroporto di Malpensa siamo soliti commentare le dimensioni delle zanzare che si “fracassano” sul parabrezza mentre corriamo l’A7 o l’A26 nei tratti di pianura. Questi paesaggi talvolta lunari, cosi estranei ai Liguri, possono risultare affascinanti, regalano visioni quasi metalliche in primavera, con le nubi grigie che si specchiano nei campi appena allagati, e visioni più dolci nei fine estate quando il riso è quasi maturo e comincia a virare sul giallo e l’ocra.
E’ un soleggiato pomeriggio di metà settembre quando varco i cancelli dell’Azienda Agricola I Pagliari di Valle Salimbene, una manciata di chilometri da Pavia in direzione Lodi. Mi piace parlarne perché ritengo di poter condividere su Ligucibario® alcune informazioni molto utili al consumatore e al gourmet, specie se appassionati di risi e risotti. Mi accoglie l’energica e sorridente titolare Lauretta, conosciuta tempo prima. L’azienda è stata fondata dal papà nel 1963 in provincia di Milano, e successivamente trasferita nella provincia di Pavia.
Al mio arrivo sta “spalando” il riso Carnaroli appena trebbiato e mi spiega che occorre farlo solo per questa tipologia, perché il chicco termina con un baffetto che, se non rimosso, impedisce al chicco di scorrer bene cosicché si incastra nei tubi verso l’essiccatoio, intasandoli.
Quindi il Carnaroli viene spalato in una buca con feritoie, dove sottostante si trova il pulitore che pulisce i chicchi dal baffetto e da eventuali impurità; poi i chicchi, tramite un tubo, giungono all’essiccatoio dove rimarranno dalle quindici alle venti ore. Questo procedimento di “spalatura” viene effettuato solo per il vero Carnaroli e non per il similare.
Il riso Carnaroli similare, oltre ad avere una resa più alta, non ha il baffetto, cosi questa operazione viene saltata. Inoltre per la legge non vi è l’obbligo di indicare in etichetta se il Carnaroli è un vero Carnaroli oppure un similare. Quindi quando compriamo Carnaroli non possiamo sapere cosa effettivamente stiamo comprando, a meno che in etichetta, per quello coltivato in provincia di Pavia, non compaia la dicitura “Carnaroli da Carnaroli Pavese”, in questo caso siamo sicuri che il nostro riso non sia un similare.
Questa certificazione “Carnaroli da Carnaroli Pavese” viene rilasciata dal CSQA, società di certificazione attiva nell’agroalimentare, che verifica, tutti gli anni, l’intero processo di coltivazione, dalle fatture di acquisto delle sementi, alla risaia…
I Pagliari produce anche le varietà Arborio, ottimo per i risotti, Baldo, consigliato per la preparazione delle torte come quella ligure, ed un mais varietà “Belgrano” completamente biologico, zappato da papà Antonio con la motozappa ed essiccato sull’aia, come una volta, ottimo per la polenta.
Lauretta mi conduce in risaia a vedere dal vivo il riso, la trebbiatura ed il sistema di irrigazione. Mi precisa di non utilizzare glifosato (erbicida disseccante), né antigerminello e fanghi, ma solo i minimi trattamenti indispensabili ad un prodotto sano. Le acque d’irrigazione arrivano dal fiume Olona ed i canali vengono puntualmente manutenuti per garantire acqua il più pulita possibile. Inoltre l’assenza di chimica favorisce il corretto ecosistema, e nelle varie stagioni possiamo ammirare diversi animali, autoctoni e migratori, che a proprio agio affollano le risaie.
Lauretta, infine, mi racconta che l’acquisto da un piccolo produttore fa sì che nel piatto finiscano i chicchi della stessa risaia, mentre l’industria che non possiede risaie si rifornisce da coltivatori intensivi, e nel piatto finiscono chicchi di diverse provenienze e con diversi tempi di cottura, a prescindere dal glifosato, dai residui dei fanghi di depurazione e da altri trattamenti…
Forse da oggi, quando mangeremo un gustoso risotto o una torta di riso, ci interrogheremo meglio sulla provenienza dei chicchi, e privilegeremo un piccolo produttore certificato.
Sonia Speroni, food tourism manager