Benché la perfezione – nel mondo terreno – rimanga giocoforza qualcosa di perfettibile quando non d’utopico, l’istituzione delle DOP, pur con alcune contraddizioni, è stata ed è una delle migliori misure di salvaguardia, e marketing, di quei prodotti che profondamente situano nei territori di provenienza e negli storici know how realizzativi la loro ragion d’essere e di competere.
Ciò vale, dunque, anche per l’olio extravergine DOP Riviera Ligure (e relative 3 sottomenzioni geografiche), che nel Consorzio di tutela individua l’idoneo strumento a difesa dalle contraffazioni e a promozione dei propri valori.
Come ho potuto scrivere anche sul cosiddetto numero zero del magazine “Liguria Food”, recente e meritoria iniziativa dell’editore savonese Sabatelli, circa l’olivo l’archeologia recupera in Liguria una storia millenaria (essa chiederebbe d’esser più compiutamente narrata anche in senso etno-gastronomico), e specializzazioni agrotecnologiche le quali dal Basso Medioevo conducono sino a coltivatori che il mai troppo rimpianto Gino Veronelli non esitava a definire “angeli matti”. Olio, il nutraceutico per antonomasia della – anzi, delle – mediterraneità…
Ma là dove i compartimenti stagni non agevolino una virtuosa contaminazione interdisciplinare dei saperi, può riuscire arduo addivenire ad una visione più complessiva e meno accademica dell’alimentazione attraverso i secoli, e di quelle diacronie (romanizzazione, invasioni barbariche, scoperta delle Americhe, cucina barocca dei patriziati…) che più d’altre indussero o scontarono, anche in Liguria, cambiamenti davvero epocali.
Ho ricevuto a fine luglio, cortesissimo dono, alcune bottiglie d’extravergine a denominazione protetta, fra le quali il vincitore, con punteggio 8,5, della 23ma edizione del Premio Leivi (2017).
Mi piace riferirne, in quanto vittoria toccata ad un’impresa “giovane”, nata nel 2014 (il titolare si descrive come reduce da 27 anni in tutt’altro settore), e capace di recuperare anche piante oramai in stato di abbandono e assediate da cespugli e rovi. Le annate di “scarica” e l’aggressività della Bactrocera stanno peraltro tenendo in costante apprensione tutti gli operatori del settore.
L’area del vincitore è quella di Lavagna, toponimo donde deriva il proprio nome la cultivar lavagnina, oliva da olio e da mensa (sebbene il Prof. Carocci Buzi in epoca fascista la annoverasse fra le olive da olio), che da sola oggi compone circa il 60% delle raccolte del Tigullio. Ispirò già l’abate scolopio albissolese Giovanni Maria Piccone per i suoi “Saggi sull’economia olearia” stampati da Giossi, in Genova, dal 1808. Aldilà della “contiguità” ecotipica con – da ponente – la cailletier, la taggiasca, la razzola e la frantoio, ha fra i tanti sinonimi giuggiolina, olivo di Lavagna, rapuina, e – appunto – taggiasca piccola.
La lavagnina regala in genere eccellenze dal colore giallo oro con tenui riverberi verdolini, la bocca percepisce una nota delicata ma con personalità, piacevole sia dove pungente sia dove più amara, e con notevoli persistenze che svelano mandorla e pinolo (più raro il carciofo), e – caso per caso – sentori agrumati ed erbacei.
Amico lettore, come concludere con un degno saluto? Forse un’idea l’avrei, mi dirai se la condividi… Chi a tavola ama se stesso, privilegia sempre gli olii extravergine, e di grande qualità.
Umberto Curti
5 set 2017 | Pubblicato in Ligucibario
Lunga vita all’olio DOP Riviera Ligure
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