Brandacujùn, nome ben strambo per una ricetta, ma più lo brandi (lo scuoti) e più vien buono… Parliamo di stoccafisso, o in subordine di baccalà, ridotto in una squisita crema scuotendolo insieme ad alcuni altri ingredienti (patate, aglio, prezzemolo, pinoli…). E’ una ricetta ponentina, che si lega anzitutto alla brandade de morue provenzale (morue da gadus morhua), e in questi anni ha beneficiato, Deogratias, di un convinto recupero, “salpato” dall’Imperiese.
L’abbinamento enologico prioritario è, beninteso, con una Bianchetta o un Vermentino liguri, versati a 10°C in tulipani a stelo alto.
Dal punto di vista storico, lo stoccafisso (un merluccide essiccato, mentre il baccalà è il medesimo pesce ma serbato sotto sale) venne “scoperto” da Pietro Querini, mercante veneziano, rampollo di una famiglia altolocata, il quale nel 1432 navigando da Creta alle Fiandre iniziò ad andare alla deriva. Si salvò con pochi compagni d’equipaggio, se ricordo bene una quindicina, approdando alle sperdute isole Lofoten, in Norvegia, che nelle proprie “Memorie” poi chiamò – poco affettuosamente? – “culo mundi”… Colà vide appunto le rastrelliere dove il pesce essicca. Giunto nelle città italiane, presso i pizzicagnoli del tempo quel cibo (ben conservabile, proteico, duttile…) sostituì in un batter d’occhio gli storioni affumicati. Si pensi che la Norvegia dispone oggi, e non a caso, di apposite figure professionali, i Vrakeren, i quali – quasi come sommelier ittici – classificano le pezzature migliori, quelle che diverranno le baffe più costose.
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