Dal greco elaion, l’olio come uso “giunge” in Italia intorno al quarto secolo a.C., ma rimane a lungo un’esclusiva dei ceti agiati, là dove quelli poveri continuarono a lungo ad utilizzare strutto, olio di noci, talora burro. Si legge peraltro in un tacuinum sanitatis del ‘400 che “il migliore è quello chiaro e un po’ citrino. Giovamento: ammorbidisce e guarisce le ferite. Nocumento: dà allo stomaco vomito e nausea. Rimozione del nocumento: con sostanze acetose e lunga decozione nel brodo”. Il ‘600 e il ‘700 sono i secoli della grande ripresa (olio come condimento e come conservante), agevolata da conquiste tecniche quali la pressa idraulica. In Italia se ne producono oggi 700mila tonnellate annue, con circa 38 DOP che confermano varietà e qualità notevoli. L’olio si distingue, soprattutto in base ad acidità e numero di perossidi, in extravergine, vergine, corrente, lampante.
Le terre dell’olio, in Liguria, non sviluppano un percorso monotematico, svelano tante altre magnifiche sorprese se è vero (ed è così) che la cultura del cibo buono e giusto si coniuga immancabilmente alla saggezza storica di un popolo. A Varignano presso La Spezia, non a caso, sono stati ritrovati i resti d’un frantoio di duemila anni fa…
Aurigo, Borgomaro, Diano San Pietro, Imperia, Lucinasco, Perinaldo, Ranzo, Villa Faraldi, Andora, Arnasco, Albenga, Nasino, Toirano, Leivi, Moneglia, Pieve Ligure, Lavagna, Sestri Levante, Castelnuovo Magra…, ho dimenticato qualcuna (da ponente a levante) delle capitali dell’olio ligure? Forse sì, forse no, mi riesce difficile in poche righe abbracciare l’intero arco regionale relativamente ad un prodotto che è tradizione millenaria e, grazie alle sue virtù salubri, ponte proiettato verso l’avvenire, condimento modernissimo, emblema della dieta mediterranea (con vino e pane compone una triade inimitabile).
L’olio che verrà, infatti, lo impone l’Unione Europea, recherà nell’etichetta le proprie origini, per evitare o quantomeno ostacolare la contraffazione. Tutti gli extravergine dovranno recarla. Saranno 4 le modalità di etichettatura: la prima con l’origine (il Paese membro UE); la seconda per le miscele d’oli comunitari, ad esempio un extravergine spremuto da olive italiane, spagnole e greche; la terza per le miscele non comunitarie, vale a dire ad esempio da olive nordafricane; la quarta infine per le miscele d’olio comunitario ed extracomunitario, ad esempio da olive spagnole e tunisine.
Ma io amo l’olio di Liguria (DOP dal 1997), coltivato raccolto e franto sulle due Riviere, mi ispiro al detto “vin vecchio olio nuovo” per girovagare fra uliveti, frantoi (gunbi), sagre, musei. Ad Apricale (IM) a marzo, a Moneglia (GE) il lunedì di Pasqua, a Baiardo (IM) in maggio, a Leivi (GE) a fine luglio, a Toirano (SV) al principio d’agosto, a Rocchetta Nervina (IM) in novembre …
E’ meraviglioso quest’oro denso, che ha benefici effetti emollienti, lassativi, protettivi, ed è finanche colagogo aiutando l’espulsione della bile. Il miglior olio ligure, secondo alcuni proveniente dalla Riviera di Ponente, ma eccellenti anche alcune produzioni a Levante, ha aspetto velato e color giallo paglierino. E’ di sapore tenue, con sentore di fiori selvatici, pinolo e noce, talora moderatamente piccante. Più è scuro, più intensa è l’oliva in termini di clorofilla e momento di raccolta (invaiatura). Se ne producono modiche quantità, anche perché la pianta teme le gelate, la mosca (a basse altitudini) e la siccità.
Le olive vengono colte entro gli inizi dell’anno direttamente dalla pianta, e spesso lavorate in modo artigianale, ieri presso antichi frantoi che utilizzavano mole di granito, oggi in impianti e centrifughe evolutisi grazie a specifiche tecnologie (la spremitura a freddo sotto i 27°C garantisce le qualità organolettiche del prodotto finale).
Eccellente sulle verdure, il pesce, la pasta, l’olio ligure nasce nel cuore dell’area DOP. Valorizzato in Liguria dai monaci già durante l’alto medioevo (forse la “taggiasca” si deve a innesti benedettini, o cappuccini), proviene da fasce pazientemente coltivate a terrazza, che caratterizzano il paesaggio.
In genere rappresenta appena il 20% del peso delle olive frantumate, mentre la sansa (il residuato solido, buccia polpa nocciolo) rappresenta il 40%. Ad un anno d’alberi carichi può far seguito uno d’alberi scarichi, ma i contadini liguri conoscono i ritmi delle stagioni, talvolta anche i capricci della natura, e sanno farvi fronte, qualità prima che quantità è la loro parola d’ordine (in Italia, fra l’altro, un olivo dà circa 8 chili di olive, in Algeria ben 18).
La taggiasca è la più diffusa in Liguria, ma ti segnalo ottimamente anche la lavagnina, tipica del Tigullio (sorella della taggiasca), che ispirò l’abate Giovanni Maria Piccone per i suoi “Saggi sull’economia olearia” stampati da Giossi, in Genova, nel 1808, e infine l’arnasca, cui è “dedicato” un commovente museo della Civiltà Contadina ad Arnasco (SV), Piazza IV novembre 8, tel. 0182 761178. Se ami i détours enogastronomici poco caotici, regàlati anche – previe telefonate! – il Frantoio-museo di Cervo (IM), Via Matteotti 31, tel. 0183 408149, il Museo delle Erbe a Cosio d’Arroscia (IM), Piazzetta Mazzini, tel. 0183 36278, il Museo del Pastore e della Civiltà delle Malghe a Mendatica (IM), tel. 0183 328713, il Museo Etnografico della Civiltà Contadina a Toirano (SV), Via Polla 12, tel. 0182 989968.
p.s. Rammento ancora il primo libro che lessi sull’argomento: Gualberto Giorgini, Come si coltiva l’olivo, ed. Hoepli 1989…