29 gen 2016  | Pubblicato in Ligucibario

Lo chef è un cuocitore. Per un rinascimento della cucina ligure 2

Carciofi cucina ligure

Carciofi, tesoro della cucina ligure

Così, parola più parola meno, si esprime il sempre sagace Gualtiero Marchesi in una recente intervista dello speciale “Buono!” ne “Il fatto quotidiano”, lettura che consiglio a tutti gli appassionati di storia, di cucina, di milanesità… E che consiglio anzitutto a quei giovani che intendano approcciare i mestieri dell’enogastronomia con diligenza.

A mio personale parere, Gualtiero Marchesi è stato nel Novecento quel che Auguste Escoffier fu nell’ultima parte del secolo precedente, riattualizzando una lezione culinaria che poggia su cardini (imprescindibili) quali eleganza, semplicità, sapore, salubrità.

Caratteristiche le quali possono peraltro pertenere anche alle più “modeste” trattorie, qualora governate con passione e cura. L’indimenticato Gino Veronelli, non a caso, raccomandava continuamente di “camminare le osterie” (e le campagne, e le cantine) per comprendere appieno le grandi cucine regionali italiane e l’umanità della gente.

Presto sarò a Modena per lavoro, là in Emilia-Romagna quell’attitudine già fa parte del patrimonio genetico delle comunità locali, della loro ospitalità sorridente, dei loro gusti “rurali” e pur rinascimentali, dei loro Lambruschi spumosi (ma, verso levante, con le lasagne al forno e la salama da sugo ormai vige anche il “recuperato” Burson)…

Io che – da genovese – le ho dedicato sinora 13 dei miei libri (e con ostinazione le dedicherò anche i prossimi), credo sia il momento per la cucina ligure di traguardare un Rinascimento. Persino in àmbito mediterraneo pochi menu risultano infatti tanto geniali, creativi, profumati e salubri quanto quello ligure. Un menu attuale, dunque, nell’accezione migliore del termine, ragionando di Ancel Keys, di nutraceutici, di farine protagoniste, di olii extravergine eccezionali, di vigne aggrappate a strapiombo sul mare.

Ecco, alle “osterie” e ai ristori liguri (e alle sciamadde, ai tortae, ai fainotti, agli agriturismi…) tocca da Sarzana a Ventimiglia l’esaltante responsabilità di perpetuare e promuovere le più autentiche tradizioni (1), i piatti della memoria, le ricette a rischio scomparsa (non mi riferisco certo agli onnipresenti spaghetti con le vongole o al fritto di pesce). In Liguria io desidero mangiare il brandacujun, la tira, i battolli, i gattafuin, e presumo lo desiderino anche i turisti, tanto più che basterebbero già questi 4 monumenti da ponente a levante per intrattenere un ospite qualche ora, spaziando fra lo stokke, le campagne napoleoniche, i navoni, le gattafure…

L’enogastronomia ligure ha sempre, salvo eccezioni, difettato di comunicatori, di cuochi, di opinion maker e (perché no?) di etnologi e sociologi inclini ad “esplicitarla” compiutamente oltre i confini regionali (2). Eppure, anche la nuova “piramide” della dieta mediterranea è una celebrazione dei cereali integrali, dell’olio extravergine, del pesce, della frutta e verdura, di alcuni frutti secchi… Dunque un’indiretta celebrazione anche della Liguria.

Esse est percipi, sentenziavano i teologi medievali, l’esistenza implica la conoscenza, e la conoscenza può richiedere narrazioni. Occorre dunque – attraverso sagaci forme di promomarketing (3) – divulgarla, diffonderla ed esportarla questa meravigliosa cucina ligure, intesa anzitutto come risorsa culturale, e amarla e rispettarla come merita. Tanto più ch’essa ricambia sempre dell’affetto. Poi, in tal senso, occorrerebbe ad esempio – godetevi i link – non confondere cuculli e friscêu (farina di ceci e farina bianca sono due cose molto diverse). Non chiamare “Pasqualina” la torta di carciofi (la prima Pasqualina non poté esser di carciofi per ragioni stagionali). Non sostituire disinvoltamente l’origano alla maggiorana (verdure ripiene e polpettone se potessero parlare sceglierebbero la maggiorana). Non abbinare vini rossi al pesto (tannini ed olii essenziali del basilico compongono un fantastico sentore tipo portapacchi metallico). Non confondere olio extravergine d’oliva e olio d’oliva (solo il primo è il nobile mosto delle drupe). Non confondere sciacchetrà e sciac-trà (il primo è il passito delle Cinque Terre, da uve a bacca bianca, il secondo è Ormeasco di Pornassio rosato, da uve dolcetto). Eliminare senza pietà lo strutto e l’olio di sansa dalla focaccia (se la focaccia potesse parlare urlerebbe “ma come vi permettete??”). Ricordarsi che il pesto si chiamò a lungo “savore d’aglio” (quindi un pesto senz’aglio è come un letto senza cuscino). Rammentare che un buon pandolce richiede burro di qualità e cedro candito (non margarine e zucca tinta di verde). Non temere di usare la prescinseua nella farcia dei pansoti (chi lo fa non torna alla ricotta). Non confondere testaroli e panigacci (soprattutto mai confonderli in quel di Podenzana). Sapere che corzetti e corzetti stampati o croxetti narrano storie diverse (una in Val Polcevera e una più a levante). Avere cognizione che la trippa, una delle regine del ricettario ligure, non è l’intestino del bovino (bensì l’insieme di 4 parti del suo apparato digerente). Eccetera eccetera eccetera…

Amare rispettare raccontare questa meravigliosa cucina ligure è l’obiettivo cui Ligucibario® si dedica da tempo, senza chiedere un euro a chicchessia. Ditemi, fraterni lettori, cosa ne pensate, mi aiuterete a far sempre meglio. E aiuterete quegli chef (pardòn quei cuocitori) che sanno guardare avanti senza dimenticarsi del passato.

Umberto Curti

(1) Escoffier stesso organizzò i cosiddetti dîner d’Epicure, pranzi dimostrativi d’alta cucina francese allestiti simultaneamente in varie parti d’Europa sulla base di un suo menu: nel 1914 le città coinvolte risultarono ben 147.

(2) le “eccezioni”, cui la cucina ligure è in qualche modo debitrice, mi paiono rappresentate pressoché in toto dagli chef Nino Bergese e Angelo Paracucchi da una parte, e dallo storico Giovanni Rebora dall’altra, tutti purtroppo scomparsi negli anni dal 1977 al 2007

(3) marketing non è un vocabolo scurrile…, si veda ad es. il mio (direi sempre attuale) Alte stagioni. Modelli per il marketing turistico, ed. Erga, Genova, 2006, pp. 139-155 e pp. 75-76. Ignorare il marketing significa già di per sé praticare un antimarketing, e quindi – probabilmente – garantirsi una celere (ma non indolore) uscita dal mercato…

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