Per chi fa il mio mestiere (nel turismo e nell’enogastronomia), anche a “tutela” della biodiversità e dunque anche delle piccole produzioni locali d’eccellenza, purtroppo l’attivismo delle agromafie e le vaste truffe alimentari di segno sanitario e/o commerciale, le quali distribuiscono alimenti non conformi alle norme vigenti, rappresentano un allarme quotidiano. Si pensi a quanto avviene ad es. nel lucroso settore degli olii, continuamente aggredito da frodi…
Vorrei anzitutto condividere coi Lettori, tuttavia, qualche precisazione (non solo lessicale) circa i concetti di alterazione, adulterazione, sofisticazione e contraffazione, tutte queste – nessuna esclusa – sono infatti prassi dannose nei confronti del consumatore, ignaro di quel che è avvenuto dentro l’alimento, dalle errate conservazioni sino alle più spregiudicate corruzioni e falsificazioni. Reati per i quali non a caso interviene l’articolo 440 del Codice Penale.
Per alterazione s’intende un deterioramento, ovvero la modifica di un alimento in termini di caratteristiche chimico-fisiche e/o organolettiche indotta da un insieme di fenomeni (talora accidentali), ovvero processi degenerativi spontanei, connessi ad una conservazione errata o protratta in eccesso (ad es. l’irrancidimento dei grassi, e le variazioni nella consistenza, nel colore, nell’odore o nel gusto del prodotto a causa di sviluppo microbico). Tali processi possono già pregiudicare l’innocuità e l’ottimale digeribilità dell’alimento.
Per adulterazione s’intende già un vero e proprio intervento produttivo, una manomissione intenzionale, ovvero la modifica di un alimento in termini di composizione naturale tramite l’eliminazione o l’incremento nelle quantità di uno o più dei suoi componenti (ad es. la sottrazione di grasso al latte, così come l’addizione di acqua al latte o al vino).
Per sofisticazione s’intende l’addizione nell’alimento di sostanze aliene alla sua composizione originaria, onde migliorarne l’estetica o occultarne difetti (ad es. l’addizione dentro carni o pesci di sostanze che ripristinino un colore più vivo e attraente o che correggano l’odore, oppure anche l’uso di coloranti o conservanti non autorizzati al fine di celare la presenza di materie prime scadenti o celare difetti nei processi produttivi, ad es. coloranti che “trasformano” la comune pasta in più “pregiata” pasta all’uovo; mozzarella sbiancata con perossido di benzoile; latte addizionato d’acqua ossigenata al fine di abbassare una carica batterica eccessiva).
Per contraffazione s’intende addirittura il conferimento di una sembianza genuina ad un prodotto composto da sostanze in tutto, o talora in parte, diverse (dal punto di vista quanti-qualitativo) da quelle che naturalmente lo costituiscono. Siamo quindi in presenza di un fake food (ad es. si commercializzano olii di semi come olio di oliva, margarine come burro, zucche candite come cedro, comuni formaggi come Grana Padano DOP, comuni spumantizzati come Champagne, comuni prosciutti come Prosciutto di Parma DOP, pesci diversi come specie di maggior pregio, prodotti scongelati come freschi, olii di semi colorati con clorofilla (detto anche verdone) o con betacarotene come olio extravergine d’oliva, tagli di carne mediocre come tagli di maggior qualità…
Debbo tuttavia aggiungere, specie rivolgendomi ai laudatores temporis acti (secondo i quali il tempo andato fu sempre molto migliore del presente…), che anche il passato non risultò immune da tali e tante criticità.
Nel corso dell’Ottocento apparvero a Genova, oltre a Il Secolo XIX, non pochi giornali (O stafì, O çittadin dal 1873 al 1928 * , O Balilla dal 1866 al 1904…), testimoniando un fiorire d’iniziative editoriali anche “politicamente” differenti, dal progressismo al clericalesimo. Proprio da uno di questi, O stafì (la parola sta per “scudiscio”), che nel 1875 fu ripetutamente sequestrato a causa dei mordaci ritratti che riservava a taluni VIP locali, leggiamo che l’esame di una partita di caffè, nel 1882, aveva rilevato terra rossa, legno di acaxù (anacardio), fegato di cavallo cotto al forno, resti di caffè e di una cicoria composta da pezzi di mattone cotti e polverizzati, sabbia, fichi secchi marci e negro animale…
Quanto al cioccolato, veniva commercializzata un’inquietante miscela: pane abbrustolito in polvere, segatura, cacao guasto e zucchero della più infima qualità, ovvero un pasticcio indigesto quando non nocivo, per di più fasciato in un incarto di stagnola contenente il 75% di piombo!
Infine, il cosiddetto “pepe di Lione” altro non era che un composto ricavato dalla spazzatura di una drogheria. Evidentemente, però, anche i NAS e i vigilanti di allora – per fortuna – non rimanevano di certo con le mani in mano. Ligucibario® già a quei tempi avrebbe augurato loro lunga vita e costanti successi investigativi…
* divenuto poi “Il Nuovo Cittadino”, per tali temi si veda il prezioso saggio di “cornice”, a firma Marina Milan, a questo link
Umberto Curti