20 apr 2021  | Pubblicato in Ligucibario

21 aprile… A tavola nell’antica Roma

02321 aprile… A tavola nell’antica Roma.

21 aprile, incidentalmente il mio compleanno. Ma soprattutto la “giornata dell’antica Roma”, perché la fondazione della città eterna viene fatta risalire, come noto, al 21 aprile del 753 a.C….
In qualità di storico dell’etno-gastronomia, mi sono sovente occupato della cucina dell’antica Roma, sempre piacevolmente sorpreso da quelle archeoricette, e fra l’altro pubblicando nel 2010 Tempo mediterraneo. Quel che resta di Apicio in cucina. A Marco Gavio Apicio, miliardario crapulone vissuto sotto Tiberio, viene infatti attribuito il famoso De re coquinaria (che è forse libro posteriore e redatto a più mani…), testo ripetutamente tradotto e commentato, opera fondamentale per chi voglia affiancare e guardare all’opera gli chef di due millenni fa… Ma anche per chi voglia saperne di più circa le possibili connessioni fra moretum e pesto, fra garum e machetto, fra biroldus e berodo…
Eccovi ora alcune parti di quel che nel 2010, a proposito del mio saggio, volle cortesemente scrivere l’Editore.

“Con autentico piacere accolgo l’invito dell’amico Umberto Curti per introdurvi a questo lavoro, il quale rappresenta il primo di una serie, che auspichiamo lunga, di testi di etno-gastronomia. La prima cosa che colpisce, leggendo Tempo mediterraneo. Quel che resta di Apicio in cucina, è, innanzitutto, l’attenzione filologica e la passione semantica che hanno contraddistinto il lavoro di restauro, sia del testo, sia, soprattutto, del contesto, rappresentato dal mondo dell’antica Roma del primo impero. La ricostruzione qui tentata, e direi abbondantemente riuscita, ci offre un affresco estremamente colorito e interessante di quelle che furono le abitudini alimentari e gli usi gastronomici della civiltà da cui, in gran parte, tutta l’Europa deriva i suoi schemi culturali, nonché linguistici. Era estremamente difficile rendere il discorso scorrevole e articolato, data l’esiguità delle fonti e dato il fatto, profondamente penalizzante, che la lingua di cucina non solo è fatta di tecnicismi, ma anche di termini importati e di numerosi neologismi. Il De re coquinaria, oltretutto, è un puzzle corale, “arricchitosi” attraverso vari secoli. L’autore si districa con estrema intelligenza e grande perizia nell’universo lessicale della gastronomia latina, offrendoci spiegazioni esaustive e, spesso, intuizioni illuminanti, capaci di riportarci non solo nel tablinium dove la classe aristocratica consumava i suoi pasti e, soprattutto, i suoi banchetti, ma anche nei mercati e nelle cucine dove i pantagruelici e raffinati preparativi fervevano, tesi a soddisfare i palati capricciosi ed esigenti di uomini abituati ad un potere vasto e, in certi casi, quasi assoluto. Il testo si dipana attraverso vari capitoli in cui non ci si limita all’esame dell’opera della ricca, quanto per certi versi triste, figura di Apicio. In uno di essi, per esempio, l’esame critico del capitolo del Satyricon di Petronio Arbitro dedicato alla cena di Trimalcione diviene una divertentissima occasione per fare un viaggio sincero e fuor di metafora negli usi e costumi non solo culinari, ma anche, per esempio, sessuali di una società ormai sull’orlo dell’abisso. Sarebbe fin troppo facile fare paragoni, e lascio ad ognuno di voi il giudizio sull’attualità evidente del testo preso in esame. Infine, l’ultimo capitolo, per certi versi il più praticabile, tenta una ricerca rispetto a ciò che la gastronomia latina ha lasciato in “eredità” alla cucina italiana e, in particolare, per ovvie ragioni di campanile, a quella ligure. Non può che sorprendere il fatto che certe abitudini alimentari ci derivino direttamente dai nostri antenati. Non tanto per il fatto in sé, che è abbastanza ovvio, ma per la riflessione che d’ora in avanti, mentre assaggiamo la pasta d’acciughe o una zuppa di legumi, o ancora un purè di fave, non potrà che sorgere spontanea, come una polla di significativi ricordi nella sorgente della nostra memoria. Una cosa a parte, poi, è il ricchissimo glossario che conclude l’opera. Esso rappresenta uno strumento fondamentale per chi vuole approfondire la conoscenza tecnica del mondo della gastronomia latina. Decine di voci ci guidano attraverso gli alimenti che costituivano ingredienti e menù della Roma antica, gli strumenti e le misure che venivano usate dai cuochi per preparare e lavorare i cibi, i luoghi in cui i Romani consumavano i loro pasti e passavano, in certi giorni, gran parte del loro tempo. Possiamo dire che non esistesse, prima del lavoro presentato in questo libro, una ricerca così puntuale e approfondita. E facciamo nostra, in questo caso, la considerazione di Umberto Curti rispetto a quanto sarebbe stato più divertente, e culturalmente più formativo, se nelle aule dei nostri licei, pur dense di nozioni sul mondo classico, si fosse parlato di più e più realisticamente della quotidianità. Alla fine, Tempo mediterraneo. Quel che resta di Apicio in cucina risulta un’opera che ben degnamente rappresenta gli intenti etno-gastronomici che l’hanno progettata”.
…quid habemus in cenula? Che cosa c’è per cenetta?

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