A me, come a molti altri, piace raccontare la mediterraneità. I dialoghi fra le sponde, Braudel, Matvejevic, La Capria, Mahfuz, i muretti a secco, l’olivo, la vite, alcuni cereali. Si può forse dire che Ligucibario®, da molti anni, altro non sia che una celebrazione della mediterraneità…
Ma quel mare che univa culture (univa è verbo al passato) sconta oggi, sovente, un surplus di retorica. E alcune dinamiche della globalizzazione, peraltro, non hanno mostrato alcun rispetto né alcuna pietà per tante tradizioni, ruralità, ed alimenti, su cui la mediterraneità poggia.
In tal senso, una lettura che renderei obbligatoria nelle scuole (italiane) “d’ogni ordine e grado” – e agli studenti e al pubblico che sovente mi ascoltano raccontare l’olio – è certamente, anche per le preziose contestualizzazioni storiche sulla Puglia olivicola, Daniele Rielli, Il fuoco invisibile, pubblicato da Rizzoli nel 2023.
Libro che, sotto la veste del romanzo, esplicita – con la forza dei reportage corali – una tragedia ecologico-sociale attraverso il dilagare del batterio Xylella presso gli uliveti pugliesi, che via via, rapidamente, trasforma un paradiso, il Salento, in un cimitero.
L’olivo “è” la mediterraneità, in Italia non a caso si consuma pro capite all’anno una quantità di olio d’oliva oltre dieci volte quella degli Stati Uniti o della Germania… Ma, al tempo stesso, l’olio d’oliva è produzione minimale rispetto agli olii di palma, soia ecc.
Abbiamo con quest’albero una relazione del tutto particolare – lo confermano miti e religioni – anche in quanto longevissimo (sa invecchiare fruttificando), e fuori dal Mediterraneo quasi ci sorprende incontrarlo (colà è di recente importazione). L’olivastro, occorre ben dirlo, diviene olivo grazie all’interazione con l’uomo.
La Xylella, cui accennavo all’inizio, è causata da un insetto vettore (cicalina sputacchina) che si ciba della linfa grezza. Purtroppo non coinvolge solo l’olivo, bensì oltre 30 specie vegetali, fra cui mandorlo, ciliegio, rosa, rosmarino (e di recente in Spagna ne è rimasto vittima anche l’albicocco; speriamo che in Liguria il “Valleggia”, già afflitto da molti funghi e in primis l’armillaria mellea, non corra rischi…).
L’incalzare di Rielli, figlio di olivicoltori, facendo piazza pulita di tanti e troppi luoghi comuni prende il via nel 2013 da Gallipoli, dove la Xylella – in pratica ancora sconosciuta in Europa – era giunta dalla Costarica trasportata da una piantina di caffè, portatrice sana, transitata verosimilmente dal porto di Rotterdam. E dove le piante (ritenute anche lì come altrove un simbolo di civiltà e pressoché immortali) seccano e muoiono senza che nessuno sappia capire e intervenire… Anzi, scoppiano le proteste contro quegli scienziati che osino proporre misure (necessariamente drastiche) di contenimento…
La politica in primis non percepisce che occorre premunirsi tagliando le piante infette, poiché sinora il batterio non risulta curabile e perciò le piante infette sono la “base” da cui l’insetto lo inoculerà alle piante ancora sane. Si minimizza il problema, anche ricorrendo a teorie deliranti (amplificate da media e soprattutto social), e intanto esso diviene “di massa” come mai, proprio mai avvenuto prima. La Xylella aveva già colpito la vite in California e l’arancio in Brasile, e pertanto i controlli – troppo a maglie larghe – non si estendevano anche alle altre centinaia di specie aggredibili.
In definitiva, scopriamo così che quantomeno 21 milioni di ulivi – tra cui molti esemplari secolari e millenari! – ormai non ci sono più, un enorme fuoco silenzioso li ha bruciati, sovente dentro proprietà poderali di mezzo ettaro, non abituate a fronteggiare emergenze… L’epidemia s’estende anche, in qualche modo, a rappresentare il declino di un’Italia arretrata e conflittuale, e ci si continua a chiedere come sia potuto avvenire, mentre i negazionisti negano come sempre le evidenze, il business antepone comunque i profitti alla natura, e tutto un indotto economico – filiere di contadini e frantoiani – stenta a medicare, anche psicologicamente, le ferite.
Si pensi che a Gagliano del Capo (Lecce) la produzione di olive è precipitata del 90%.
E’ forse una terribile lezione da cui finalmente imparare qualcosa?
Umberto Curti