Di Niccolò * Paganini (nato a Genova il 27 ottobre 1782) si è scritto tanto, anche “alimentando” episodi e narrazioni puramente leggendarie, del resto fu una celebrità pari a quelle che oggi definiamo rockstar internazionali… Dal punto di vista storico e biografico, ovvero quello che strettamente ci interessa, sta di fatto che dal 1834 il violinista inizia purtroppo a scontare sempre più lunghi accessi di una tosse terribile, di difficile diagnosi anche per i migliori luminari del tempo, e che ovviamente ostacola la sua attività compositiva e soprattutto concertistica, le esibizioni si diradano. Tubercolosi? “Cancro”? Le cure consistono – caso per caso secondo diagnosi – in purganti, in latte d’asina (voga di quell’epoca), in salassi e poi in sedativi, che tuttavia nel complesso non giovano granché o talora complicano il quadro, intossicando l’organismo – già debilitato – , tanto che alla tosse via via s’aggiungono problemi alla laringe e una necrosi dell’osso mascellare. Perde peso, fatica a nutrirsi, è sempre più pallido, necessita di cateteri, tremano senza sosta le sue celebri mani… Paganini non è un temperamento che perda il controllo, o che si perda d’animo, e quindi sperimenta sempre nuove strade medico-farmacologiche (e non solo) auspicando di risolvere le gravi patologie del momento, che lo tormentano pregiudicando ogni qualità di vita… Purtroppo diviene anche totalmente afono, “sorretto” per fortuna dalla vicinanza e dalle capacità del giovane figlio Achille, 15enne, il quale aveva appreso ad interpretare il labiale e successivamente ad adoperare fogliettini (fra l’altro Achille li conservò nel tempo, perpetuando la memoria del celebre padre, mettendo a sistema ed inoltre autenticando vari documenti sin lì “sparsi”, ma si pensi che quando i nipoti, che mai avevano conosciuto il nonno, intesero alienare allo Stato l’intera opera di Paganini, ottennero un rifiuto…). Dopo tanto soffrire Paganini infine muore il 27 maggio 1840 (a Nizza, in via della Prefettura) senza poter compiere i 58 anni, ospite del presidente del Senato francese, una targa lo ricorda con queste parole: «Poi che da questa casa volgendo il giorno XXVII di maggio del MDCCCXL lo spirito di Nicolò Paganini si ricongiunse alle fonti della eterna armonia giace l’arco potente di magiche note ma nelle aure soavi di Nizza ne vive ancora la dolcezza suprema». Lascia al figlio notevoli beni (gestiti dalla moglie, la cantante Antonia Bianchi) ma non il prezioso “cannone”, un “Guarneri del Gesù” – ovvero opera del sommo liutaio cremonese – che Paganini prediligeva sin dal 1800-1802, ereditato dalla municipalità di Genova e oggi esposto in una teca a Palazzo Tursi. Essendo morto confessato, ma non comunicato (forse per un equivoco con Padre Caffarelli), gli alti gradi della Chiesa purtroppo ne vietano l’inumazione in terra sacra… Le reliquie vengono dunque imbalsamate con la tecnica Gannal (moderna tecnica di tanatoprassi messa a punto da Jean-Nicolas Gannal) per esser custodite presso la casa dove Paganini era mancato. Rimangono qualche giorno esposte al pubblico. Poi, dopo vari e caotici trasferimenti, nel 1853 esse giungono al cimitero di Gaione presso Parma (dove dal 1833 Paganini possedeva una villa con grande parco e lago) e infine dal 1876 al cimitero della Villetta, sempre di Parma, dove tuttora un adeguato “tempietto” le ospita. A Parma – curioso il destino… – Paganini era stato col padre nel 1796, 14enne, dove si era ammalato di una polmonite poi curata con salassi che lo avevano stremato, tanto da doversi rifugiare nella casa paterna a Romairone, presso San Quirico in val Polcevera, dove dedicava 10-12 ore quotidiano allo studio del violino, su un “Guarneri” donatogli da un “fan” di Parma… La storia – nel bene e nel male – propone non di rado ritorni e circolarità.
Nel 1839, poco prima di morire, Paganini compila anche, in una lettera per un caro amico (l’avvocato Luigi Germi, che spera tanto di rivedere), la ricetta dei ravioli. Confessa: “Ogni giorno di magro e anche di grasso, sopporto una salivazione rammentando gli squisiti ravioli che tante volte ho gustati alla tua mensa”. Li adora un po’ come tutti i genovesi – credo che anche questa lettura stia inducendo in molti l’acquolina… – e la descrizione, quantunque non immune da pesantezze d’ortografia e sintassi, è quindi minuziosamente perfetta: “Per una libra e mezza di farina due libre di buon manzo magro per fare il suco (sic). Nel tegame si mette del butirro (sic), indi un poco di cipolla ben trittolata (sic) che soffrigga un poco. Si mette il manzo e fare che prenda un po’ di colore. E per ottenere un suco consistente si prende poche prese di farina, ed adagio adagio si semina in detto suco affinché prenda colore. Poi si prende della conserva di pomodoro, si disfa nell’acqua, se ne versa entro alla farina che sta nel tegame e si mescola per scioglierla maggiormente, ed in ultimo si pongono entro dei fonghi (sic) secchi ben tritolati e pestati ed ecco fatto il suco. Ora veniamo alla pasta per tirare le foglie senza ovi. Un poco di sale entro alla pasta gioverà alla consistenza della medesima. Ora veniamo al pieno. Nello stesso tegame con la carne si fa in quel suco cuocere mezza libra di vitella magra, poi si leva, si tritola e si pesta molto. Si prende un cervello di vitello, si cuoce nell’acqua, poi si cava la pelle che copre il cervello, si tritola e si pesta separatamente come come (sic). Si prende un pugno di borage (sic) chiamata in Nizza boraj, si fanno bollire, si premono molto, e si pestano come sopra. Si prendono tre ovi che bastano per una libra e mezza di farina. Si sbattono e uniti e nuovamente pestati insieme tutti gli oggetti sopra nominati, in detti ovi ponendovi un poco di formaggio parmigiano. Ecco fatto il pieno. Potete servirvi del cappone in luogo del vitello, dei laccetti in luogo di cervello, per attenere un pieno più delicato. Se il pieno restasse duro si mette del suco. Per i ravioli la pasta si lascia un poco molla. Si lascia per un’ora sotto coperta da un piatto per ottenere le foglie sottili”.
* Paganini si firmava Niccolò e Nicolò, talora perfino Nicola…
Umberto Curti