Nei riti della mietitura presso i contesti rurali europei lo spirito del grano nuovo, custodito nelle ultime spighe/nell’ultimo covone e sovente rappresentato sotto sembianze umane (ad es. un forestiero) o zoomorfe (ad es. la lepre), veniva simbolicamente immolato e consumato.
In base ad un format assai consueto presso varie comunità del contado nord/centroeuropeo, ed assai rassicurante, col grano dell’ultimo covone si impastava uno specifico pane “apotropaico” da spartire solennemente fra tutti i membri della famiglia. Non di rado era il padrone dei terreni a falciare il primo grano e realizzare il cerimoniale, altre volte era il prete (pane eucaristico), fosse come fosse si recitavano preghiere e/o frasari ad hoc prima di cibarsi del banchetto. Alla fine, ciò che rimaneva di quel pane rituale veniva ripartito fra le case, onde recare a tutti i nuclei famigliari l’energia positiva e aggregante del grano nuovo (prima di tale distribuzione e “trattamento” era di fatto proibito consumarlo autonomamente, e il mancato rispetto del tabù esponeva a grave pericolo individui e gruppi…).
L’etnografia mondiale rivela che questi usi legati alla fertilità, alla raccolta delle primizie e allo scavo delle prime radici stagionali rivestivano immenso valore calendariale, perché all’anno vecchio subentrava finalmente l’anno nuovo, dalla morte la rinascita, la rifondazione ciclica del tempo, speranza di prosperità, Demetra e poi Cerere, e la “madre” del Galles era Ceridwen, dea del grano, dell’ispirazione e dell’intelligenza…
Tanto che il celebre antropologo scozzese James G. Frazer (The golden bough) sottolineò come fossero caratteristici anche di popoli non praticanti l’agricoltura come attività primaria.
E li recuperiamo presso gli arabi, gli slavi, i russi… I bulgari rivestivano l’ultimo covone con una camicia femminile, lo trasportavano in processione attraverso il villaggio ed infine lo gettavano nel fiume ad evocare la pioggia che avrebbe portato beneficio al futuro raccolto. In alternativa, veniva incendiato e le ceneri sparpagliate per i campi, così da accrescerne la fertilità.
In Italia le esperienze più importanti si contestualizzano e si perpetuano ad esempio nel Lazio, Cilento, Molise, Basilicata, Puglia, Sicilia…
L‘esperienza agraria si conferma vitale nella strutturazione delle prassi religiose, presso qualunque civiltà agricola a prescindere dalle specificità geostoriche. In proposito non dovrebbero sussistere più dubbi, anche alla luce degli studi di Mircea Eliade, di Vladimir Propp… Se un raccolto abbondante infondeva beninteso serenità, ed uno scarso preoccupazioni, occorre ribadire che alla base dei riti si incontra costantemente – luogo per luogo, caso per caso – la paura ancestrale della forza “superiore” posseduta dalla natura (“primus in orbe deos fecit timor”, annota anzitutto Petronio Arbitro), cui in qualche modo assoggettarsi per proteggersi, e per utilizzare e condividere i prodotti anche in senso culinario.
La frantumazione della società contemporanea e l’egoreferenzialità estrema dei percorsi personali hanno ovviamente indotto ansietà e timori nuovi, che l’uomo affronta più isolato e solitario, ecco perché neonate dottrine laiche si volgono al cibo inseguendo e spacciando evidenze e verità che il presente (o ciò che residua delle religioni tradizionali) non “garantisce” più. L’ideologia della forma fisica ed anzi della magrezza ad ogni costo, materialmente percepibile, si è anteposta alle spiritualità ed al vantaggio sociale. La sopravvivenza di ciascuno-per-sé svela tuttavia la pochezza di un modello privato che non favorisce progressi collettivi, bensì il diffondersi – in conflitto tra loro – di molteplici religioni della dieta e dei regimi (talora discutibili o addirittura nocive). Le menti più deboli precipitano nell’anoressia.
Il villaggio ahimé globale, i riti “liquidi” ed effimeri della modernità oggi rendono tabù alcuni cibi, e li collocano sul banco degli accusati, imputando loro chissà quali nocumenti, e nel frattempo ne elevano altri a ipotetico fattore di salute e longevità. Sono teorie sovente infondate, mode prive di visuale scientifica, che inducono scelte semplicistiche, fobiche, talora promettendo benessere e risultati irrealistici, illusori (web e social fungono da cassa di risonanza, online tutti sono leoni, tuttologi, esperti, dietologi).
Ma guasto analogo lo arrecano purtroppo ai fondamenti culturali insiti nelle tradizioni gastronomiche, le quali poggiano diacronicamente su di una duratura relazione umana verso alcuni alimenti, quelli che compongono e consolidano l’habitat culinario locale (a monte di una ricetta v’è agricoltura, pesca, allevamento, selvaggina, prodotti del bosco, cultivar autoctone…).
Fastfood, chimica industriale, OGM, monoporzioni e kit per il dimagrimento – dominatori di una quotidianità sempre più sbrigativa e indecifrabile – via via “rimpiazzano” anche piatti cucinati che nelle storie di ieri rappresentarono momenti di convivio, di un mangiare insieme, seduti a tavola o dintorni, dove gettare ponti verso l’altro, verso differenti sapienze, verso differenti stili alimentari. Ciò che è stato va dunque sbiadendo a tal punto che le nuove generazioni si candidano a perdere il contatto con preziose forme di memoria storica e materiale, ormai (Italia se ci sei batti un colpo) a rischio d’estinzione.
Ma il futuro è – pur senza alcuna nostalgia campanilistica – anche memoria, e ogni volta troppo alto il prezzo da pagare per chi se ne dimentichi.
Umberto Curti