La sezione di archeologia subacquea nel Museo di Albenga, in Palazzo Peloso Cepolla, bella dimora secentesca, è sorta a metà Novecento dopo la scoperta, sui fondali presso l’isola Gallinaria, di una nave oneraria (da trasporto) degli inizi del I secolo a.C. Sono stati quindi esposti resti della chiglia e vari materiali via via rinvenuti, fra cui molte anfore vinarie, collocate così come stavano disposte durante la navigazione, stivate strettamente affinché le une “riparassero” le altre da movimenti e urti. Erano gli anni gloriosi di Nino Lamboglia… L’interno dell’anfora veniva impermeabilizzato con pece e resine, donde il “vino resinato”, mentre l’imbocco veniva sigillato in vari modi, ad es. con una pigna, o con un tappo di sughero spalmato di pece, ma anche con specifici tappi di ceramica sigillati con calce o pozzolana, una fine cenere vulcanica (si veda anche il mio “Il cibo in Liguria dalla preistoria all’età romana”, ed. De Ferrari, Genova, 2012). Altre 4 anfore, recuperate dal comandante Paccagnella del peschereccio “Impavido” che andava a caccia di gamberoni, il 27 maggio 2016 al largo di Portofino (700 m di profondità), hanno di fatto svelato una “portacontainer” romana del II – I secolo a. C…. Le anfore, coi bolli del generale e politico Lucio Domizio Enobarbo (49 a.C. – 25), rivelano una precisa origine, una fornace, e lo schiavo che le aveva cotte. Considerate le generose dimensioni, al momento si era sospettato che appartenessero ad una grossa partita di vino trasportata da un’idonea, capace nave. Tutto ciò attesta che una “storia” dei cosiddetti vini navigati è assai antica, e che la Liguria era ieri come oggi sponda dinanzi alla quale si susseguivano le rotte commerciali est-ovest (Kainua→Genova, nata presso il seno del Mandraccio sotto la collina di Castello, valse da emporio già in epoca etrusca. E Massalia→Marsiglia fu fondata dai greci…). Purtroppo a quei tempi una nave ogni tre s’inabissava per via del mistral, o per via del libeccio (altri relitti sono infatti a Portovenere, a Diano, ecc.). Approfondire il tema è sempre stimolante. Pare siano stati i “marangoni” genovesi (sommozzatori e palombari noti sin dal Trecento, abili nuotatori anche in apnea) ad individuare non pochi relitti romani dando il via ad una “risalita” di quelle anfore che fossero scampate a mareggiate e naufragi (si noti che marangone è anche, di fatto, sinonimo di cormorano). E pare che quel vino, navigato ma anche sommerso, fosse…migliore di tanti altri. Un segreto – maniman – da non condividere, da sussurrare lontano dai microfoni, tutt’al più sulla battigia e su qualche banchina appartata… Un vino quindi che come un santo pellegrino navigava sui leudi (l’eroico natante di molto Mediterraneo), dentro botti di rovere. Il leudo, forse di origine catalana, più che un natante è un DNA della Liguria di levante, e serviva a trasferire tanti generi di prima necessità, incluso certo il vino (il gozzo è viceversa barca da pesca). Da carico, ha linea di galleggiamento molto bassa. E’ stabile in navigazione ma lento, e dunque risultava performante con venti a favore, poiché movimentare il bordo della vela costituisce operazione complessa (solo negli anni ’30 del Novecento si montarono motori). Esistevano leudi vinaccieri con botti costruite sottocoperta, e botticelle più piccole in coperta; leudi formaggiai, annunciati dal pungente odore; e leudi surari (da sura= ghiaia), caricati di sabbia per l’edilizia. Esistevano inoltre leudi “minori” che a Sestri Levante chiamavano latini e a Riva Trigoso rivanetti. Nella seconda metà dell’Ottocento s’adibivano alle battute di pesca con le manate (reti in uso fino agli anni ’30 per le acciughe e le sardine) nei mari dell’Africa o davanti alle coste toscane e laziali. A bordo recavano le scorte di provviste e l’occorrente per salare i pesci catturati, viravano sui porti essenzialmente per asciugare le reti, o approvvigionarsi, fino al limite della stagione, entro la prima decade di luglio. Ricorrenti erano nei tempi d’oro i traffici sulle “vie dei leudi” con l’Elba, ma anche la Sicilia e la Corsica, e nel 1876 Bartolomeo Bregante prese a commercializzare “vino navigato” tramite una micro-flotta proprio di leudi. In vista delle burrasche invernali i preziosi natanti venivano faticosamente tirati a riva, e passanti e turisti aiutavano gli equipaggi. I leudi in genere sopportavano fino ad un massimo di 300/500 botti, che all’approdo si buttavano in acqua e poi classicamente si spingevano verso terra, sbalordendo gli stranieri che soggiornavano/svernavano in Riviera, poi rotolavano sulla sabbia e venivano infine issate su mezzi di trasporto per esser condotte all’impianto d’imbottigliamento. Era un momento gioioso. Alcune case fronte mare avevano ganci cui appendere i sacchi per il filtraggio del vino. Mormorano così, in loco, che il gusto di quel vino sarebbe stato (positivamente) figlio di salsedine e legno, unico, irripetibile… Ma il trasporto via gomma e i traghetti per le isole subentrarono ai precedenti usi commerciali, e gli ultimi leudi vennero dismessi negli anni ’50. Inoltre i proprietari, anziani o demotivati dalle onerose spese di manutenzione, talora li abbandonarono sulle spiagge, ben malinconico destino.
Umberto Curti