Anche in àmbito enogastronomico, v’è modo e modo di porsi davanti alla cosiddetta globalizzazione.
Nel primo, ove necessario – o opportuno – si fronteggia una tendenza mondiale tramite la tutela e valorizzazione delle tipicità locali, delle identità autentiche, della qualità territoriale. Nel secondo, si scimmiottano le mode esogene, con creatività che scade a stravaganza, a cucina confusion più che fusion.
Innegabilmente, il cibo (come il vino) è per propria natura incontro, scambio, convivio, il cibo ha “viaggiato” e viaggia per affratellare i popoli, ne svela le origini, ne racconta le culture, ne indirizza i destini. Ma l’enogastronomia italiana non deve dimenticare d’essere, anzitutto, italiana. Vi sarà pur una ragione se il mondo intero – tramite l’Italian sounding – costantemente imita i nostri prodotti, il Parmigiano Reggiano, la Mozzarella, il Chianti…, e in altri casi illegalmente li contraffa. E anche circa il pesto (io sono genovese), quanto pesto in giro per il mondo ha poco da spartire con un buon pesto?
L’Italian sounding, peraltro (cito da sito riconducibile al Ministero dello sviluppo economico
http://www.uibm.gov.it/index.php/la-proprieta-industriale/utilita-pi/servizi-prop-ind/contrasto-all-italian-sounding ) già in sé “rappresenta la forma più eclatante di concorrenza sleale e truffa nei confronti dei consumatori, soprattutto nel settore agroalimentare”.
Ogni giorno il lavoro mi porta a sfogliare giornali e periodici, leggere ricettari e menu, navigare il web, curiosare i blog e i social, e realizzo con dispiacere che la nostra arte culinaria nazionale (anzi, le nostre 20 gloriose regionalità) sta sottomettendosi ad un vocabolario sempre più inglese e/o esotico. Tataki, crumble, chips, bisque, tempura, masala…, evidentemente l’italiano non basta (più) a definire le fritture, o i dolci alle mele un po’ “sbrisoloni”.
“L’inglese (come suggerisce acutamente Marxiano Melotti, e in ogni caso l’esotismo delle lingue straniere…) è imprescindibile per dare autorevolezza a ogni registro comunicativo, dal saggio scientifico allo storytelling commerciale, fino alle recensioni culinarie”.
Lungi da me – ci mancherebbe – qualsiasi battaglia di retroguardia o provincialistica, e lunga vita a tradizioni ricette vocabolari d’ogni dove, ma credo dovrebbe avvenire l’esatto contrario, ovvero dovrebbero essere le gastronomie e i ristoratori stranieri a “saccheggiare” – ancor più di quanto già non saccheggino – il nostro lessico culinario, perché noi siamo l’Italia, un Paese unico al mondo quanto a tradizioni agroalimentari (tanto che anche il nostro avvenire originerà dalla salvaguardia e promozione di quel che meglio sappiamo fare ovvero essere)…
Sarei insomma orgoglioso di leggere la parola “focaccia” dentro un menu a Tokio, magari relativamente ad una specialità preparata con buon extravergine, così come trovo sovente grottesco un “tempura” (da quel latino “témpora” che i Gesuiti portoghesi portarono in Giappone) quando seggo ad un tavolo che si specchia nel Mar Ligure, un mare tutt’intorno al quale si frigge davvero da tanto tempo.
Per il 25 maggio 2018 ho non a caso costruito un menu per il ristorante “Azzurrodue” (Arenzano) nel quale gli esotismi sono molto “local”, ovvero inesistenti, e ai tavoli giungeranno zimino di ceci, croxetti del Tigullio, buridda e torta stroscia.
Sto vaneggiando?
Umberto Curti