1 mag 2016  | Pubblicato in Blog-Buonessere · Ligucibario

Da Tabarca a Carloforte. Ricette fra Genova, Tunisia e Sardegna 1

fainò

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1. Le vicende storiche
Tabarca è un porto della Tunisia settentrionale (governatorato di Jendouba), ad ovest dell’antica Cartagine e a pochi chilometri dall’attuale confine algerino. L’aeroporto internazionale e le catene alberghiere ne fanno una meta del tour operating. Riparato dalla prospiciente isoletta rocciosa, vasta 24 ettari, Thabraca (donde poi, per metatesi linguistica, Tabarca) fu scalo cartaginese e quindi romano, età inquiete ma di cui rimangono resti di mosaici rinvenuti in ville ed aree rurali, nonché necropoli e rovine di edifici religiosi anche cristiani. L’isola di Tabarca entrò progressivamente nell’orbita genovese durante il Medioevo, per via del lucroso corallo, ogni libbra rivenduta consentiva infatti un guadagno di circa 4,50 lire (l’uso del corallo a scopo decorativo risale nientemeno che alla Grecia alessandrina). Quel tratto di mare era tuttavia soggetto alle scorrerie del truce corsaro Dragut (1), fin quando non venne catturato – anno 1540 – da Giannettino Doria, della casata genovese che agiva di concerto con la corona spagnola. Tabarca tramite il re di Spagna divenne di diritto, nel 1544, privativa dei Lomellini (2), patrizi genovesi sodali dei Grimaldi, via via popolandosi di 300 famiglie d’ardimentosi pescatori pegliesi, nel 1633 subì le aggressioni del capitano còrso Guidiccelli (alias Sanson Napollon), e senza tregua dovette guardarsi dalle costanti mire francesi. Divenne ben presto uno dei più popolosi “porti franchi” dove, per così dire, all’ombra del forte eretto dai Lomellini si commerciava senza scrupoli ogni cosa, e – in qualche modo – risultò anche un punto di contatto fra l’universo cristiano e quello berbero/islamico. Contemporaneamente giunsero in Tunisia anche mercanti ebrei provenienti da Livorno. L’atmosfera – anche a causa dei soprusi dei rais locali – però via via prese a peggiorare, il corallo a venir meno, e i Lomellini addirittura proibirono, pena l’allontanamento, i matrimoni, per evitare ulteriori sovraffollamenti nel ridotto spazio dell’isola. Cominciarono i subaffitti, cominciarono le partenze, un’autentica piccola diaspora “caldeggiata” da Agostino Tagliafico, cui si debbono i primi sopralluoghi esplorativi all’isola di San Pietro. Sin quando, intorno al 1740, il bey (3) di Tunisi giunto con 8 golette schiavizzò i circa 900 tabarchini, d’origine pegliese, conducendoli sulla terraferma. Furono progressivamente riscattati da Carlo Emanuele III di Savoia e da altri aristocratici – sensibilizzati anche dal Papa – al prezzo, si vocifera, di circa 50mila zecchini d’oro… L’intercessione valse anche il trasferimento sull’isola di San Pietro (4), sud-ovest della Sardegna al largo della penisola già fenicia-punica del Sulcis, dove nella parte più piana sorse Carloforte (toponimo che appunto omaggia il liberatore), “u pàize”, su progetto dell’architetto piemontese, e commissario militare, Augusto de la Vallée, cuore di un’area che tuttora parla il dialetto genovese, come ampiamente documentato dagli studi sul dialetto ligure coloniale dell’instancabile linguista arenzanese Fiorenzo Toso, anche se non mancano apporti da altre lingue, fornaio ad esempio si dice bulanjé – dal francese boulanger – .
L’isola di San Pietro è terra antica, d’origine vulcanica, bellissima, Accipitrum Insula per i falchi “della regina” che nidificavano sulle sue falesie, fra baie e grotte, prima di migrare in Africa, e tuttora nelle zone paludose s’incontrano fenicotteri rosa, cormorani ed altre specie; propone fra l’altro necropoli puniche e vari oggetti d’epoca romana, e leggenda vuole che debba il nome alla sosta dell’apostolo Pietro (46 d.C.) in navigazione dall’Africa a Roma. Fu viceversa disabitata, a parte le molte navi che vi facevan sosta (5) e i temibili conigli selvatici, dal crollo dell’impero romano sino appunto al ‘700. Venne individuata da Agostino Tagliafico e da Carlo Emanuele III sia per l’ubicazione geografica, sia per il corallo, sia per la pesca dei tonni rossi grazie alle vicine tonnare di Portoscuso (6), Portopaglia e Isola Piana, sia infine per la prospettiva di business legata alle saline. Vi sbarcarono così da Tabarca per l’infeudazione un centinaio di famiglie, una vera comunità di profughi, cui si sommarono una trentina di famiglie dalla Liguria, per un totale di circa 470 persone. Gli inizi non furono semplici, a causa delle ricorrenti epidemie, ma le “cassinee” composero via via il centro storico, Giambattista Segni il 24 giugno 1738 fu il primo sindaco, e la fede eresse presto anche la parrocchia, dedicata a San Carlo Borromeo, essa tuttora ospita nell’abside una tela, raffigurante il patrono, donata dal re sabaudo. Altre famiglie – non schiavizzate – colonizzarono poi, sotto l’egida dell’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, la prospiciente Calasetta, sull’isola di Sant’Antioco (7), celebre per le abitazioni candide di calce e la macchia mediterranea lungo le spiagge (altre famiglie ancora rimasero a Tabarca, costituendo un “millet”, ovvero una comunità usufruente d’alcuni diritti, che seppe intrattenere rapporti economici con Genova e i cui ultimi discendenti vivono oggi in Francia). Nel 1767, frattanto, proseguendo l’espansione i Savoia occuparono la Maddalena. La località di Carloforte iniziò a svilupparsi (abitato, colture, pesca, canalizzazioni…), benché flagellata dapprima da un’invasione francese, che “costò” il braccio destro alla statua in marmo del re sardo (8), e poi da un’ennesima cruenta razzia tunisina capeggiata da un giovane della Capraia (i pirati rapirono oltre 900 persone, tenendole in ostaggio 5 anni, furono riscattate da Carlo Emanuele IV, altre 1000 fuggirono verso la Spagna). Si decise perciò l’erezione di una cinta muraria fortificata e con torri d’avvistamento, interrotta fra le altre dall’ampia Porta Leone (perché una testa di leone vi è scolpita), che ricorre in alcuni proverbi tipici dell’isola. Il riparo e la pace portarono un sospirato benessere e una nuova alacrità economica, tanto che Carloforte commerciò anche aragoste (9) con le principali potenze europee. Carloforte è ancora oggi un vivace porto sardo, e tutt’attorno continua fervida la pesca del tonno rosso, 15 maggio-15 giugno è il mese della calata collettiva delle reti e dell’evento non solo gastronomico denominato “girotonno”, ma per Sant’Antonio da Padova, 13 giugno, vige il proverbio “pe’ Sant’Antunin i tunni se pescan cu u campanin” (ovvero non ce ne sono già quasi più…). Così come “carlofortina” (10) è detta un’imbarcazione a vela specificamente attrezzata, con vivaio, per la pesca delle aragoste – già l’ammiraglio Orazio Nelson (1758-1805) riteneva i maestri d’ascia carlofortini i migliori del Mediterraneo, essi per soddisfare il committente non realizzavano mai due barche uguali… – . A sud del centro abitato s’incontrano le importanti saline, e per lungo tempo a Carloforte esisté anche una qualche attività estrattiva (di manganese ed altro). Orti e soprattutto bei vigneti, amorosamente riparati dall’impetuoso maestrale di nordovest come dallo scirocco di sudest, confermano un’antica tradizione anche viticola – come quasi ovunque nel Mediterraneo – , le bianche dimore sono quelle abitate dai carlofortini fra l’estate e l’autunno in coincidenza con la vendemmia. Il vitigno autoctono è il ramungiò, che nelle aree di Giunco e Sabino dà un bianco secco, ottimo col pesce, 13-15°, da bersi fresco e giovane (11). Si coltivano anche monica, granaccia, moscato bianco, nuragus, trebbiano, e con alcuni mosti fortificati si realizza un ratafià perfetto accanto a dolci non lievitati e a formaggi erborinati.
2. La cucina carlofortina
Questi trascorsi storici, di segno intensamente commerciale e culturale, si riverberano evidentemente nella cucina, né tout court sarda né tout court ligure, dove esistono ad esempio, in estrema sintesi (ma si veda il successivo ricettario): infinite ricette del tonno, pesce di cui si consuma tutto tranne testa e coda, e i carlofortini si confermano ghiotti di scabeccio e tonnina, di figatellu e belu, di gurezi e spinella, di bottarga e mosciamme (12); la facussa, sorta di cetriolo saporito, dolce e dissetante, di provenienza maghrebina, “faguss”, che entra nella locale capponadda con le gallette; le varie farinate un po’ alla maniera di Pegli (ma qui una, antichissima, farcisce una torta); i ceci in zimino; la focaccia; l’unto, salsa di olio sale limone pomodori per le ricette alla griglia; la casòlla, una zuppa di pesci e molluschi – dal murice, detto “runseggiu”, al polpo – in salsa; il pesto (ma con aggiunta di pomodoro); i ravioli (tendenzialmente con ricotta) conditi col pomodoro; la bobba, sorta di favetta; le cipolle ripiene, che vengono fritte e cosparse di salsina di pomodori; il cascà, sorta di cous-cous (13) senza carne e con verdure cucinate a parte, festeggiato da una sagra in aprile; i pesci fritti con l’aggiadda; sia lo stocche che il baccalà (donde splendidi frisceu); i panetti coi fichi secchi, preparati per i Santi o il 4 novembre per San Carlo; i canestrelli natalizi o pasquali (e le altre pastafrolle in cento forme)… Il “ricettangolo” dell’attivissima pubblicista Maria Elena Tiragallo, su www.isoladisanpietro.org, è un inesauribile forziere on line grazie al quale approfondire queste ricette in tutte le varianti. Interessante infine il proverbio ”Per conoscere una persona occorre mangiarci una salma di sale insieme”, la salma era un’unità di misura fra i 70 e i 300 litri, variabile in funzione dell’area dove veniva adottata.
(1) Dragut risultò ovviamente pericoloso anche per i traffici di Venezia. Catturato in acque còrse da Giannettino Doria su ordine di Carlo V ma scampato alla prigionia (la concessione di Tabarca ai Lomellini fu forse il riscatto per la liberazione), successivamente s’alleò ad Enrico II di Francia. Con Solimano, il più vittorioso fra i sultani ottomani, conquistò Tripoli nel 1551, sempre distinguendosi per ferocia. Morì infine nel 1565, durante l’assedio di Malta. Una felice narrazione di queste vicende è nel romanzo storico di P.G. Quartero, L’oro di Tabarka
(2) casato d’origine forse lombarda, il capostipite fu Vassallo, console di Genova nel 1137. I Lomellini si distinsero come banchieri e diedero alla Repubblica ben sette dogi. Leonello, in particolare, fu conte di Corsica nel ‘300 organicamente alla Maona, sorta di s.p.a. che amministrava l’isola per conto di Genova. Egli resisté finché poté contro i nativi, capitanati da Arrigo della Rocca e da Paolino di Campo Casso. Tornò coi francesi, per nomina feudale di Carlo VI, ma di nuovo dovette ritirarsi. Si spense infine a Genova. E’ viceversa Francesco, fratello di Agostino e Nicolò, colui al quale la Spagna concesse Tabarca
(3) bey è carica che indicava i sovrani degli Stati vassalli della Turchia. Si trattava di militari d’esperienza posti a capo di una sorta di direttivo
(4) altri ostaggi, circa una settantina di famiglie, furono ceduti al bey algerino, ma nel 1769 riscattati da Carlo III di Spagna andarono a popolare l’isola di San Pablo (diverrà Nueva Tabarca) a 20 km da Alicante, alloggiati nel collegio che era stato gesuitico. Altri ancora si rifugiarono a Bonifacio, sud della Corsica… I cognomi di questi sventurati sono chiaramente d’origine genovese, e Parodi primo fra tutti…
(5) comprese quelle due che tragicamente naufragarono col loro carico di giovani partiti da Marsiglia per la Crociata del 1212. Papa Gregorio IX volle che in loro ricordo venisse eretta la Chiesa dei Novelli Innocenti, riedificata nel 1742 da Agostino Tagliafico che le donò inoltre la campana più antica tuttora esistente sull’isola
(6) proprio negli edifici della tonnara di Portoscuso avevano inizialmente abitato i profughi giunti da Tabarca, attendendo la realizzazione di Carloforte. E in queste tonnare addirittura “nacque” intorno al 1868 la tecnica di confezionare in latte il tonno sott’olio. La festa del 29 giugno è sentitissima – con processione e fuochi d’artificio – in quanto San Pietro è il protettore dei corallari e dei tonnarotti
(7) anch’essa di origine vulcanica, è collegata alla terraferma da un ponte e un istmo artificiale. Deve il nome al santo che giunse ad evangelizzarla dal Medio Oriente nel I secolo d.C. E’ uno dei rari luoghi nel mondo dove si fila e si tesse il bisso, una fibra ricavata da un mollusco locale che abita le lagune sabbiose. Dal 2006 Calasetta è – come già Carloforte dal 2004 – Comune onorario della Provincia di Genova
(8) così, col braccio mozzato, tuttora si presenta la statua ricollocata sulla piazza omonima a metà lungomare…
(9) Carloforte emanò nel 1820 un documento, per calmierare i prezzi del pescato, in base a cui scopriamo che le aragoste erano la merce più a buon mercato!
(10) la carlofortina è un piccolo gozzo con prua e poppa verticali, tutto pontato (www.carloforte.net/velalatina)
(11) a Sant’Antioco, viceversa, il vitigno principale è il carignano, a bacca nera, di provenienza catalana (cariñena), che ottimamente dona un vino carico, corposo, asciutto, dal valido tenore alcolico. Apprezzabile anche il cosiddetto rosato di Calasetta
(12) del tonno si conoscono specie diverse: la palamita o bonito, che può raggiungere i 70 cm ed è molto diffusa nel Mediterraneo; l’orcynopsis unicolor (palamita bianca), che può raggiungere gli 80 cm ed è rara nel Mediterraneo; l’alalunga, pregiato, che può raggiungere il metro di lunghezza ed è nel Mediterraneo e nell’Atlantico; il parathunnus obesus, diffuso nell’Atlantico; il neothunnus albacora (yellowfin), diffuso nell’Atlantico; il biso, che può raggiungere i 45 cm ed è presente nel Mediterraneo; l’alletterato o tonno liscio, che può raggiungere il metro di lunghezza ed è poco diffuso nel Mediterraneo; lo scomber pelamys, che può raggiungere i 70 cm ed è poco diffuso nel Mediterraneo; il tonno comune, che può raggiungere anche i 2-3 m e i 400 kg di peso, oggetto di culto in area mediterranea. Già peraltro M. Sella, nel suo Migrazioni e habitat del tonno (1929), indagò i “misteriosi” percorsi di questo pesce fra l’Atlantico e il Mediterraneo. Esso ha sviluppo di crescita in genere molto rapido, a 5 anni supera i 100 kg di peso e a 10 i 200, un tempo si diceva scampirro quando non superava le 100 libbre, e tonnacolo quand’era un poco più grosso. “Di arrivo” o “di corsa” è detto tuttora il tonno che a primavera avanzata s’infila nelle tonnare coi genitali in maturazione, “di ritorno” è viceversa il tonno che li ha vuoti, e smagrito cerca l’alto mare. I suoi nemici sono i pescicani e i delfini, che disperdono i branchi. Alimento pregiatissimo sia da crudo che da cotto, il tonno viene catturato con la pesca all’amo a bordo di battelli (ad es. l’alalunga nell’Atlantico), con varie reti (la pratica della circuizione s’affermò compiutamente in America), e tradizionalmente con le tonnare, che si dice furono inventate dai fenici. Meno numerose d’una volta, sparse nel Mediterraneo, in Spagna ed anche Portogallo, le tonnare sono capitanate ognuna da un “rais”, che dal centro coordina le operazioni di tutto il barcareccio, quando via via i pesci dalla cosiddetta “isola” di reti giungono fino alla camera della morte, dove avrà luogo la cruenta mattanza con mazze e fiocine. E mentre il mare si colora di rosso, i pescatori alzano al cielo nenie malinconiche. Quanto al “menu” carlofortino, lo scabeccio è la frittura seguita da marinata (si dice carpione nel caso di pesci d’acqua dolce). La tonnina è qui polpa cotta e sottoposta almeno un mese a salagione. Il figatellu è lattume, ovvero le gonadi del maschio (sorta di bottarga maschile), assai versatile si consuma lesso e posto sott’olio in insalata oppure lavorato in polpette con uova e pan grattato e poi fritte… Il belu è lo stomaco (la ventre), liofilizzato grazie al sale e all’essiccazione all’aperto, viene bollito quindi passato in tegame con patate, cipolle e pomodori. Allo stesso modo si possono cucinare i gurezi (esofagi, sottogola) e la spinella (polpa non compiutamente diliscata, la “bianca” sotto la pancia è migliore di quella “nera” sulla schiena). Infine, come noto, con bottarga s’intendono uova – sovente di muggine (cefalo) – pressate, salate ed essiccate 4-5 mesi. La parola proviene dall’arabo botarikh = ovario salato, e si lega al greco tàrichos. Di origine forse addirittura fenicia, un tempo si utilizzavano parti del delfino, che in Sardegna rappresentavano la paga per i tonnarotti liguri. Oggi la produzione si concentra quasi esclusivamente in Sardegna (Alghero), Calabria (Vibo Valentia), Sicilia (Trapani e Favignana). Si presentano in forma di stecco rosa-ambra e si tagliano a fettine, sbriciolandole – su spaghetti ed altro – . Esistono anche bottarghe di molva e di pesce spada. Viceversa con mosciamme, “musettu” in dialetto genovese, s’intendono filettini di tonno essiccati (di nuovo, un tempo era delfino), confezionati in barre rosso-violacee. Ereditiamo la parola dall’arabo mushamma’ (pesce o tonno salato), transitato nello spagnolo moxama oggi mojama. Quantunque per lo storico Fernard Braudel il mosciamme, la buridda e il caviale fossero cibi “penitenziali”, oggi il consumo è diffuso a prescindere dalle stagioni. Il mosciamme, essiccato non più al sole, ma 4-6 ore dentro forni, va affettato e posto in olio. Con acciughe, pomodori e origano è un magnifico inizio per scoprire via via le più complesse e complete caponadde, camogline ma non solo. La monografia semi-definitiva sul tonno è S. Torre, Le magie del tonno, ed. Marsilio, Venezia, 1999, ma si veda anche lo struggente (irreperibile?) G. Conte, Addio amico tonno, ed. Edizioni della torre, Cagliari, 1985
(13) il cous-cous – la grafia può ben variare – , in origine ideazione delle tribù berbere, è oggi piatto nazionale di molti Paesi nordafricani e islamici. Rappresenta un momento conviviale, e prima di mangiarlo – seduti in cerchio – si prega e si ringrazia Dio. Non si consuma individualmente nei piatti, bensì lo si prende via via dal recipiente tramite le classiche focacce non lievitate. Quanto alla cucina tunisina, nel complesso si conferma mediterranea, e policroma, mixando diversi apporti dai popoli che dominarono il Paese e dai nomadi del deserto, comunque oggi con largo impiego di cereali, olio d’oliva, pescato, frutta e vegetali specialmente lungo le coste, numerose spezie forti e – dopo l’arrivo dal Nuovo Mondo – pomodori e patate. La carne è quasi sempre ovina (pecora, montone, l’agnello entra ad es. in una deliziosa “chorba” con le verdure), ma si consuma anche quella di cammello. Come sovente nel mondo arabo, i vari cous-cous fungono da piatto “nazionale”. La pasta di grano viene consuetamente condita con pomodoro e harissa, la celebre salsa piccante bruna (un battuto di peperoncino fresco ed aglio in olio d’oliva). Tra i pani, quello detto “italiano” si caratterizza per l’abbondante mollica, ma ve ne sono di più rustici, cotti nei forni in terra e sabbia. Il pane si apprezza farcito – via di mezzo fra il sandwich e la baguette – con tonno, harissa, olive, capperi e uova sode affettate sottili. Ottimo finger food è anche il brik, sorta di “crêpe” riccamente farcita e ripiegata per la frittura in olio bollente. Coi ceci si prepara un’invitante zuppa all’aglio (labladi). Rituale poi in molte occasioni conviviali l’insalata méchouia (assonanza con mes-ciùa), dove varie verdure grigliate s’accompagnano a tonno, uova sode, aglio, coriandolo, cumino, olio d’oliva, succo di limone e non di rado – ancora – l’harissa. I peperoni usano anche ripieni, di carne ed altro, quindi fritti e salsati. Varie le tajine (stufati in tegame), di formaggio, di spinaci… Il formaggio più celebre è una specie di gorgonzola pungente. Quanto ai dolci, si fa largo utilizzo di frutta secca e costantemente di datteri, assai pregiati (golfo di Gabes…), ma nel complesso ci s’imbatte in una pasticceria un po’ stucchevole per il gusto europeo, a causa degli sciroppi e degli zuccheri in eccesso. Le cose migliori sono le samsa, sfoglie farcite con mandorle tritate, sesamo e miele, e i baklava, ovvero frutta secca ridotta in pasta soda con miele ed altro e cotta al forno dentro strati di pasta yufka (fillo), dai baklava derivò lo strüdel per via dell’influsso ottomano in Ungheria. Comune è accompagnarli con buon thé aromatizzato alla menta.
Umberto Curti, Ligucibario 

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