Cara Giocolataia ti scrivo… Oggi Umberto Curti si “sostituisce” per una volta ad Emanuela Floris per raccontare, viste le tante richieste, il percorso del cacao dalla pianta fino al cioccolato. Primo assaggio: le origini Un mito indigeno dell’area di Vera Cruz in Messico narra la storia di Quetzalcoatl, giardiniere degli dei, che rapì la pianta del cacao dal paradiso per regalarla all’uomo. Per questo motivo Linneo, il botanico svedese del 18° secolo che diede un nome a pressoché tutte le piante conosciute all’epoca, chiamò la pianta Theobroma Cacao (= il cibo degli dei). Linguisticamente, cacao è un calco di cacauatl, la parola usata dai nativi per riferirsi a una bevanda calda. Non fu Cristoforo Colombo, ma il famigerato conquistador Hernàn Cortes (per loro sfortuna reputato una divinità da Montezuma e dai suoi) a cogliere pienamente le sue potenzialità e, di conseguenza , a “esportarlo” verso il suo imperatore e il Vecchio Mondo. Vide infatti gli aztechi ricavare dalle fave una bevanda corroborante e piacevole, preziosa, afrodisiaca e quant’altro, tanto che le fave venivano persino valutate come moneta di scambio. Nelle corti e nei salotti europei la bevanda, amara e piccante, venne via via ingentilita, soprattutto per merito di monaci-speziali (all’inizio restarono certo più pregevoli le tazze che il contenuto…), ma occorsero circa tre secoli prima che l’alimento liquido diventasse solido, ovvero che alla cioccolata si affiancasse il cioccolato. La pianta del cacao, che in Europa non può attecchire, è caratteristica dell’America centromeridionale, benché oggi esistano estesissime coltivazioni in Africa e – qui e là – in Asia (qualcuna perfino in Oceania). Dona frutti coriacei chiamati cabosse, dal francese, simili a cetrioli, ma ovali e grossi quasi come una palla da rugby, i quali proteggono le fave. Sono oggetto di raccolta pressoché continua, perché la pianta ha fioritura e frutto ininterrotti, infatti si possono vedere fiori e frutti, acerbi e maturi, coabitare lo stesso ramo. Le prime lavorazioni – durante le quali le fave fermentano ed essiccano – avvengono nel Nuovo Mondo, in condizioni talvolta primitive, e sfruttando senza pietà la manodopera locale, dopo di che esse, sottoposte a rapide calibrature e controlli, partono verso i silos e gli stabilimenti di trasformazione dell’Europa, degli USA… Da quei silos si sposteranno verso aziende europee, svizzere, tedesche, francesi, italiane (piemontesi, toscane…) eccetera eccetera, che hanno fatto, e stanno tuttora facendo, la storia del cioccolato. Provare per credere da Torino a Parigi, da Pontedera a Berna. La Liguria, poi, vanta un artigianato di prim’ordine, realtà imprenditoriali antiche, tanto che molti centri storici sono punteggiati di botteghe e laboratori dove già l’olfatto segnala eccellenza… Secondo assaggio: la produzione Effettuata una sommaria pulizia meccanica, chiamata spietratura, si sottopongono le fave a torrefazione (con aria calda), così da sterilizzarle, asciugarle dall’umidità, e spogliarle della buccia, l’unico costituente che va in gran parte perduto. Una volta miscelate, onde pervenire a caratteristiche organolettiche ottimali, le fave vengono frantumate in granella via via più fine, deacidificate, di nuovo essiccate e macinate. Si ottiene così, da un mulino a cilindri e da altri macchinari, la cosiddetta pasta (o massa, o liquore) di cacao, puro seme, amarissima, che infatti non è ancora idonea al consumo. A quel punto si schiudono due differenti scenari. Essa infatti viene separata da una pressa in due parti, quella secca diviene cacao in polvere (panello o torta di cacao), ricco di carboidrati e proteine, pronto per il confezionamento nei pittoreschi barattoli; quella grassa viceversa è il burro di cacao. Il cioccolato altro non è che pasta di cacao addizionata con burro di cacao e zucchero, più altri eventuali ingredienti che ne possono esaltare o aromatizzare il sapore (vaniglia, latte…). Il composto, tuttavia, deve ancora attraversare alcune fasi di raffinazione e soprattutto il concaggio (la parola deriva da conca). Questa fase, in particolare – che talvolta dura fino a 4 giorni – , “sbattendo” il composto lo deacidifica ancora, lo amalgama e lo arrotonda, conferendogli quella palatabilità armoniosa, senza spigoli, che è appannaggio delle tavolette più pregiate. Dal concaggio deriva il cosiddetto cioccolato di copertura, quello acquistato dai piccoli pasticceri, i quali non potrebbero permettersi tutto il ciclo di lavoro a monte. Invece il famoso cioccolato di Modica, in Sicilia, è granuloso e “ruvido” proprio perché non subisce tale concaggio, la sua consistenza più hard e brutale è da taluni adorata. A questo punto, dopo il concaggio si effettua il temperaggio, il quale consiste in uno choc termico finalizzato a stabilizzare i cristalli interni del composto. Siamo ormai a fine corsa: non restano che il modellaggio, colando il composto dentro stampi che vibrano, onde far fuoriuscire l’aria residua, il raffreddamento (naturale o artificiale), e infine il packaging, dentro stagnole e involti – ormai – uno più invitante dell’altro! E’ bene privilegiare confezioni termosaldate, che proteggono il cioccolato da umidità e calore. Le aziende più affidabili, inoltre, aggiungono sulla confezione una serie di “notizie” importanti (ad es. tipo di cacao, vaniglia, dati nutrizionali…); la caratteristica più importante di tutte rimane concretamente la purezza, significa che, malgrado una permissiva e discutibile normativa europea del 2003, non sono state impiegate materie grasse sostitutive, le MGS, al posto del “nobile” burro di cacao. Terzo assaggio: la degustazione Il cioccolato è un alimento complesso: dolce anzitutto per via dello zucchero, acido per via della fermentazione delle fave, amaro per via dei tannini, grasso per via del burro di cacao. E’ preferibile, a fini di degustazione, privilegiare il fondente, ritenuto – a ragione – il cioccolato più puro, più in grado di svelare il cacao (pregiato o no) da cui origina ed anche le lavorazioni (più o meno accurate) cui è stato sottoposto. Del cacao esistono infatti tre “varietà” genotipiche, il criollo, raro e magnifico, il forastero, molto diffuso e di solito mediocre, e il trinitario, abbastanza pregiato in quanto nacque – sull’isola Trinidad – come ibridazione fra gli altri due. Esistono poi 2 cacao di varietà forastero dell’Ecuador (l’arriba e l’esmeralda) che per l’alto livello qualitativo vengono equiparati al criollo. Il forastero è circa l’88-90% della produzione mondiale, è il cacao definito “bulk”, quello quotato nelle Borse. In estrema sintesi, le fave dei cacao più pregiati (come detto, criollo e trinitario) subiscono lavorazioni delicate, non invasive, al fine di preservare le favolose qualità varietali delle fave. Da ciò si deduce che gran parte del cioccolato che consumiamo, quello che di solito occhieggia dagli scaffali di supermercati, autogrill ecc., è ottenuto da cacao forastero (dal punto di vista economico non potrebbe essere altrimenti). Va nondimeno sottolineato che le attuali tecnologie e un’accresciuta attenzione verso il meglio permettono di ottenere notevoli tavolette anche col forastero. Sia come sia, è entusiasmante – anche in compagnia di amici – disporre su un piatto 4-6 “campioni” e, come si fa coi formaggi, partire da ore 12 e procedere in senso orario… Un buon cioccolato (è consigliabile prediligere tavolette col 70-85% di cacao e non prossime alla scadenza) deve risultare liscio e lucido, senza screpolature né opacità, deve fondere velocemente e deve lasciare in bocca una nota ricca e persistente, nella quale via via l’appassionato riconoscerà sentori di caffè, o di liquirizia, o di frutta secca, o di miele… Proverà un piacere non più sposo solo all’acqua, ma che viceversa aumenta in compagnia di alcuni vini, dal Barolo chinato piemontese ai Banyuls e Maury francesi (granaccia passita), dai celebri passiti della Sicilia (Pantelleria!) ai liquorosi di Spagna e Portogallo (Sherry, Porto, Madeira). Va da sé che ove il cioccolato risulti particolarmente piccante, mentolato ecc. l’abbinamento enologico diventa difficoltoso. Un piacere, infine, che non turba la coscienza, è infatti risaputo che, ove consumato con ragionevolezza, il cioccolato detiene proprietà benefiche, dà energia e buon umore, e – impiegando un grasso vegetale come il burro di cacao – non contiene traccia di colesterolo.
6 dic 2013 | Pubblicato in Farinologo e giocolataia
A Scuola di Cacao
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