4 dic 2019  | Pubblicato in Ligucibario

Quale Liguria vorremo?

revezora con farina di mais

revezora con farina di mais

Mi preme rispondere al prezioso contributo di Sonia Speroni apparso su Ligucibario® qualche giorno fa perché ricordo bene anch’io l’itinerario Genova-Ovada.
Quattordicenne, nel 1977 lo percorsi in Vespa 50, proseguendo poi per Trisobbio (Tarsobi), dove la mia famiglia – al pari di alcuni miei parenti – affittava un appartamentino per l’estate. Il viaggio, durato alcune ore e “confortato” dai sorpassi di mio padre che mi scortava e via via mi attendeva, rappresentò una delle mie prime, magnifiche avventure di motociclista. La Vespa consentiva in vacanza una libertà totale, e il sellino lungo di trasportare comodamente amici e fanciulle (nella speranza che vigili&company non mi avvistassero, la multa si aggirava sulle 2mila lire, troppe per le mie finanze di ragazzino)…
Agosto a Tarsobi – ero stato promosso e m’apprestavo al ginnasio – significava spensieratezza, vino di vigne vere, nocciole, biliardi, ozio, bagni nelle cascatelle dei torrenti, paste del bar “Claudio” a Ovada, sagre di questo e di quello, orchestrine, trattorie nei paesini limitrofi dove “seguire” la squadra di calcio per cui tifavo, e che indossava squillanti maglie arancio tipo l’Olanda, la mitica compagine del calcio totale, che tutti avevamo scoperto grazie a Johan Cruijff…
42 anni dopo posso dire d’aver poi percorso cento volte quella strada, quel “valico” del Turchino tutto curve, quell’autostrada che all’inizio parve un miracolo, talora anche godendomi i panorami a bordo del treno che da Brignole s’arrampica fino ad Acqui Terme, è una tratta ottocentesca a binario unico, con viadotti eroici e tante stazioncine, passata Sampierdarena, un po’ fuori del mondo… Provo a citarle a memoria: Borzoli, Costa di Sestri, Granara, Acquasanta, Mele, Campo Ligure (Masone), Rossiglione, Ovada, Molare, Prasco-Cremolino, Visone. Chi non è del posto, alcune le ha mai sentite nominare?
Di quei luoghi io conosco non ogni angolo, ma quasi, la mia professione è infatti la Liguria, mi occupo di turismo enogastronomico, e questo conferisce costante “trasversalità” al mio fare, poiché turismo enogastronomico significa culture, sapienze, ruralità, produzioni agroalimentari, musei tematici, eventi…
Liguria, una terra di strabiliante beltà, e 234 Comuni dal confine con la Francia al confine con Toscana ed Emilia, una terra duale (la costa e l’entroterra, il levante e il ponente, i centri urbani e le ruralità, Genova e le delegazioni/periferie…) con anime assai diverse al proprio interno, una mappa inesauribile di biodiversità, storie, tradizioni popolari, gastronomie, vigne e uliveti, artigianati… Tale dualità dovrebbe costituire – più di quanto sia sinora avvenuto – una ricchezza, e non più un punto critico.
Del Turchino, della Valle Stura ligure e degl’immediati dintorni, amico lettore, potrei cantarti i santuari, i musei, l’antica trattoria-enoteca “Baccicin du caru” di Gianni Bruzzone, le escursioni, le neviere, Castello Spinola, i formaggi, la testa in cassetta, i ravioli, la pute, la batulla, la bazzurra, la revezora, i fügassin, la pasticceria secca, i boschi gli orti i frutteti, i funghi, le castagne, gli apiari, Forte Geremia, la Badia cistercense di Tiglieto… Una meraviglia dopo l’altra… Is it enough?
Questi luoghi – come gran parte della Liguria e d’Italia – avrebbero il dovere di far compiutamente sistema e in tal modo facilitarsi il diritto d’attrarre un turismo ad hoc, un turismo rilassato, green, consapevole, gourmet, da accogliere con premurose formule esperienziali, e viceversa non dovrebbero patire la pena – quasi ogni autunno ormai… – di strade che cedono e frazioni cui non si può più giungere (e addirittura di vie Aurelie e autostrade che chiudono).
Chi segue Ligucibario® (sito ormai ultradecennale) sa che, personalmente, mai mi arruolerò nelle schiere dei demagoghi, né di quei “ruralisti” che per avversione al nuovo o per mera saudade agognano forse un ritorno alle economie del baratto. Il passato è passato, si deve prender atto che una globalizzazione (iniqua fin che si vuole) è tuttora in pieno corso, e va fronteggiata – tanto dall’attore pubblico quanto dalle aziende – con atteggiamenti e strumenti adeguati ai tempi.
Condivido la teoria secondo cui l’attuale modello “mondiale” di sviluppo non funziona, rende i ricchi sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri, genera soprattutto disoccupazione e scontento, ma temo che nessuna nostalgia, nessun fanatismo della terra e nessuna decrescita felice possano in sé garantire risposte ai territori. Occorre viceversa attrarre investimenti, “manutenere” il paesaggio e i collegamenti fra le comunità prima ancora che fra punti sulle cartine, riossigenare le economie ancora vitali, motivare i giovani (a rimanere), recuperare terreni e cultivar, tracciare filiere, letteralmente inventare lavoro per rimettere in circolo idee, risorse e redditi: wildlife stays, wildlife pays, dicono assai bene altrove: la natura se si perpetua rende, ovvero il progresso è, e dovrà sempre più essere, compatibile con la tutela dell’ambiente, che si rivela patrimonio in grado di “ripagarsi”.
Tuttavia le microimprese a gestione famigliare, le piccole botteghe, i ristori di paese, alcuni agricoltori e agriturismi (specialmente nelle aree più “marginali”) sovente stentano a tenere il passo di un’epoca sempre più celere e deregolamentata e indecifrabile. Questi piccoli, coraggiosi, caparbi imprenditori, che talora potrebbero compartecipare i benefici portati dal turismo, vanno formati – con percorsi specifici – al management, alla comunicazione, alla tecnologia, perché la loro permanenza sui territori è essenziale, e ne perpetua l’identità socioeconomica. La formazione è il solo antidoto cui si può immediatamente e autonomamente ricorrere per contrastare il declino. Chi ancora non parla le lingue del mercato, chi non si racconta, chi non aderisce a reti operative, chi non si promuove su web e social media occuperà infatti – non illudiamoci – isole sempre più residuali, sino a scomparire progressivamente dalla scena. Prospettiva che mi addolora, ma chi non comunica non esiste, chi non pratica il marketing pratica – ipso facto – un antimarketing che avvantaggia solo i concorrenti. Non si tratta di imitare realtà diverse, sovradimensionate, né competitori di maggior successo, si tratta di attenuare gap altrimenti sempre più incolmabili. Formandosi formandosi formandosi. Anche tramite metodi formativi nuovi (flipped class e dintorni…), che capovolgono le logiche e le scansioni dell’insegnamento classico, addivenendo a forme di training interattive, concrete, “in situazione”, che ricalchino la quotidianità operativa delle imprese.
Le botteghe di presidio, le attività d’un tempo, gli artigiani, i “commestibili” (come si diceva un tempo) troppo spesso debbono ormai arrendersi, calare le saracinesche, “estinguere” i propri saperi perché le nuove generazioni non rilevano “business” non più redditizi. Alcune aree vanno desertificandosi. Le statistiche recenti, per chi voglia consultarle, sono drammatiche (alcune delle peggiori – commercio, artigianato, hotel e ristoranti, bar e panifici… – al link http://www.ligucibario.com/luisa-puppo-ad-agritravelexpo-bergamo/ ).
Ligucibario®, quasi sempre inascoltato?, lo grida accoratamente da anni…
Parallelamente, alla Liguria in questi decenni non è stato risparmiato alcunché quanto ad alluvioni, mareggiate, frane, crolli autostradali, estati siccitose, gelicidi. L’avidità, il profitto, l’insipienza hanno cementificato litorali e rilievi ovunque sia stato loro concesso dalla “miopia” di chi avrebbe dovuto custodire il territorio. Le cause di quanto sta avvenendo (in concorso col cambiamento climatico) sono molto chiare, il dissesto idrogeologico non discende da cause astratte, sovente firma i propri disastri con nomi e cognomi.
Quale Liguria vorremo? Chi ascolteremo d’ora in poi? Quali percorsi sapremo intraprendere? Riusciremo ad invertire la rotta?
Rispondetemi come io ho risposto a Sonia, ma non rispondetemi – vi prego – che forse è già troppo tardi.
Umberto Curti
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