30 nov 2020  | Pubblicato in Ligucibario

Pandolce e solstizio d’inverno, il dies solis invicti

Dedico questo pezzo alla famosa pasticceria “Klainguti”, piazza di Soziglia, cuore di Genova, auspicandone la riapertura.

DSCN4062Dicembre, mai come quest’anno si sente forte il bisogno di Natale…, di quel solstizio che confermerà vittorioso il sole. Nel 2015 Ligucibario® dedicò un pezzo specifico al pandolce, ricevendo in poco tempo oltre 1.200 like… In effetti, ö pandöçe a Genova * non è più soltanto un dolce natalizio, bensì un compagno frequente dell’alimentazione locale. Vanta (quello alto) una storia antica, sin dagli anni intorno al Mille, allorché Genova – non ancora regina finanziaria di molte rotte – via via si posiziona come “tappa” verso le crociate (gli eccidi dell’una parte e dell’altra m’impediscono la “c” maiuscola) per la Terrasanta. Esse non furono semplici contese militari, si legga anzitutto Jacques Le Goff, viceversa rappresentarono – in pieno Medioevo – una delle più importanti fasi culturali ed economiche della storia europea. Infatti, con gli armigeri “marciarono”, e per decenni, anche mercanti e artigiani… Molta è la saggistica sul tema, si veda ad es. questo link.

Genova poté così via via consolidare il proprio influsso sui territori e le città occupate, e come sempre avviene in questi casi (Graecia capta ferum victorem cepit…) gli occupanti appresero nuovi saperi, anche gastronomici (fra cui la canditura “araba”), e s’impossessarono di usi, prodotti e merci… In effetti, dopo le conquiste militari, anche (e soprattutto?) i mercanti genovesi si affermeranno in primis grazie alla concessione di privative commerciali, di esenzioni fiscali, di quartieri commerciali dove “sperimentare” tutte le novità e le transazioni (approfondimenti a questo link). L’immensa ricchezza che ne derivava, tornata in patria (piazza Caricamento) fece di Genova non a caso quella città che Francesco Petrarca nel 1358 esaltò come “Superba per uomini e per mura”.

Ho già scritto altrove (Liguria Food a questo link) che Genova e Venezia per secoli si disputarono l’esclusiva di quelle erbe e spezie che rivoluzionarono cucine e consumi. Ma ai fini del nostro ragionare è opportuno tornare proprio alla canditura, che vide eccellere per primi i francesi, non a caso indefessi Crociati. Solo col voltaggino Pietro Romanengo essa approdò (1780) presso i confiseurs genovesi, ambientandosi perfettamente in piazza Soziglia (il giornalista Stefano Pezzini approfondisce tali vicende a questo link ). Quest’azienda, tuttora in attività, è di fatto – purtroppo – l’unica a Genova che agevoli la ricerca storica, avendo conservato parte di quei brogliacci e documentazioni commerciali con cui si riescono a ricostruire alcune vicende non solo gastronomiche.

Il “legame” del pandolce (un impasto con uvetta sultanina e frutta secca) con l’oriente è tale che, secondo Luigi Augusto Cervetto, storico genovese (1854-1923), esso deriverebbe, evolutivamente, da un antico, voluminoso dolce persiano con miele e canditi (suppongo il paska o dintorni), che secondo i riti del luogo un giovanissimo suddito offriva ogni capodanno al re (dalla Persia giunse in Europa anche quella maggiorana che a Genova chiamiamo persa). Ed in effetti a Natale, dopo i rituali della vigilia ** e la visita al presepe, a Genova può affettare il pandolce solo il pater familias, ma come noto è il più giovane di casa – prima di porgerglielo – ad ornarne la sommità, conficcandovi un rametto d’ofeuggiö (laurifolium→alloro), simbolo di armonia, di senno e di benessere…

DSCN4056Paolo Monelli, giornalista gourmand (che fra l’altro battezzò la “via dell’amore”), definì l’alloro ligure “così profumato che, assaggiandolo, ci sembrò di trangugiare tutte le glorie letterarie d’Italia”. Tutto il territorio regionale in effetti è cosparso di cespi e alberi, le foglie verde intenso rinviano sentori balsamici; inoltre l’alloro nelle credenze popolari scongiurava i fulmini, ecco perché s’incontra in giardini e parchi. Le lattaie che dall’immediato entroterra trasportavano il latte alle famiglie genovesi donavano rami d’alloro; e i macellai e i rosticcieri, durante le feste, ornavano la bottega con una grande «ramma». E fino agli anni Trenta del ‘900 l’alloro rappresentò in Liguria il vero albero di Natale (più “ecologico” dell’abete nordico?), i rami abitavano tutti i vani della casa, ingresso bagno cucina…, e tutto l’arredo (porte, armadi, dipinti, specchi, carrelli…), ma l’alloro fungeva anche da prato del presepe. I rametti “assemblati” ai mandarini, infine, rallegravano ciotole di cristallo poste un po’ ovunque, anche sulla tavola del banchetto. Su quella tavola, poi, non mancavano mai alcuni “portafortuna”: lo scopino d’erica benedetto durante la Messa di mezzanotte, la manciata di sale, il mestolo forato (cassarea), due pani bianchi, uno per i poveri e l’altro per gli animali… Nel focolare, inoltre, un ceppo d’alloro ardeva fino a capodanno, a figurare l’exit dell’anno vecchio a beneficio dell’avvento del nuovo.

Alla madre intanto spettavano l’assaggio del pandolce e la recita di voti benauguranti.
“Vitt-a lunga con sto’ pan, prego a tütti sanitæ, comme ancheu, comme duman, affettalo chi assettae, da mangialo in santa paxe, co-i figgeu grandi e piccin, co-i parenti e co-i vexin, tütti i anni che vegnià, comme spero Dio vurrià”.

A questo punto una fetta veniva riposta dentro un tovagliolo per farne dono al primo povero che picchiasse all’uscio (talora erano frati che raccoglievano offerte per il convento e i bisognosi), e un’altra si serbava ben protetta per S. Biagio, il 3 febbraio, protettore – come noto – del naso e della gola.

Tutto questo per dire che, storicamente, il (meraviglioso) panettone milanese, certo il grande lievitato più famoso d’Italia, è in qualche modo debitore al pandolce genovese, non il contrario, e che forse fu semplicemente la potenza di marketing di aziende quali Motta e Alemagna a rendere poi più nota la tradizione meneghina…

Oggi presumo che, ogni 10 pandolci genovesi, 9 siano “bassi” (il basso è una sorta di pastafrolla “ottocentesca” *** , più veloce e semplice, resa possibile dai baking del chimico Liebig), e che quasi tutti li acquistino in negozio. Ma nei tempi addietro la preparazione – a base beninteso di pasta madre – era casalinga, e per la lievitazione, lenta e costante, ovviamente occorreva calore, tanto che le massaie lo portavano a letto avvolto in stoffa, e sotto le coperte faceva compagnia ai “preti” contenenti lo scaldino. Dopodiché cuoceva nei runfò a legna di casa (i “caloriferi” dell’epoca), o presso i panettieri, beninteso di fiducia.

In linea generale, dunque, in passato gli ingredienti erano solo farina, olio, miele, “zibibbo”, acqua di fiori d’arancio, semi di anice e lievito naturale, oggi vengono aggiunti gli zest d’arancia e cedro canditi, i pinoli, il burro ha sostituito l’olio, e lo zucchero il miele…

Chi voglia cimentarsi con una ricetta, mia (a questo link) o altrui, approfitti anche della “Cuciniera genovese” di Giobatta Ratto (1863), primo ricettario ligure, precedente anche l’Artusi (1891), che s’impose maggiormente a livello nazionale. Il dolce è ieri come oggi, quanto a shelf-life, ben conservabile **** , e l’abbinamento enologico privilegia il Moscato per le versioni alte (buon appetito a Andrea Doria!), ma un passito a bacca bianca per quelli bassi. So bene che v’è anche chi abbina bollicine brut, rosolii o Marsala, ma francamente a costoro non mi riesce di dir altro, e volentieri, che Prosit.

Note al testo

* tanti qui e là i sinonimi, baciccia, pan dö bambin, focaccia sarzanese, pan del marinaio, e – come noto – Genoa cake nel mondo…

** il mattino del 24 le donne addobbavano la casa con semplici spaghi cui appendere le bacche di ginepro, l’alloro, i rametti di ulivo, i maccheroncini, le noci e le nocciole. E, nel frattempo, gli Abati del Popolo, rappresentanti le Podesterie di Bisagno, Polcevera e Voltri, donavano al Doge il tradizionale “confêugö” (un ceppo d’alloro) quale augurio dalle popolazioni fuori porta

*** ottocentesco è anche il Selkirk bannock, puro artigianato scozzese (Selkirk è un burgh della Scozia di SE), gustato di solito col thé del pomeriggio

**** a bordo dei mercantili le uvette e le scorze di arancia lavorate con sciroppo di zucchero rimpiazzavano la frutta fresca, che si sarebbe deteriorata durante le lunghe rotte. Ai tempi, infatti, diete senza frutta e verdura fresca uccidevano gli equipaggi con epidemie di scorbuto, fin quando nel Settecento la scienza scoprì l’antidoto della vitamina C… Non a caso, i “cadrai” – presidiando i moli col loro catering – accoglievano i ritorni issando a bordo scodelle di profumato minestrone fumante, the greenest of greens!
Umberto Curti
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