In Italia si bevono (specialmente d’estate…) circa 31 litri di birra pro capite l’anno, niente rispetto a Germania, Regno Unito, Belgio, Repubblica Ceca. Nel nostro Paese, la birra più celebre era sino a ieri soprattutto quella tracannata all’Oktoberfest bavarese, o quella prodotta in qualche sperduto monastero “nordico”…, e lungo le Alpi una linea netta separava rigidamente il mondo della vite (e quindi il Mediterraneo e l’Italia) dal mondo brassicolo… Il vocabolo birra deriva dall’antico germanico bier, peraltro la fermentazione dei cereali per ricavarne bevande si è sempre praticata in varie parti del mondo. In Italia, l’autorevole Dizionario Enciclopedico Italiano (Treccani) nel 1970 si limitava ancora a descriverla come “bevanda alcolica dalla fermentazione dell’orzo, resa aromatica dal luppolo”.
Non si sarebbe dunque affermata in Italia, senza Teo Musso, infaticabile langarolo (!), questa ventata di birra fresca, birra “fatta a mano”, birra che ha oramai nobiltà pari al vino, birra che oltretutto racconta storie antiche, di millenni e millenni, già fra egizi (dove in età tolemaica diventò monopolio di stato) ed etruschi…
In poco più d’un ventennio un Paese – l’Italia – che difettava perfino di normative al riguardo vede brasserie e ristoranti anche d’alta gamma affollarsi sempre più di birre magnifiche, l’opposto delle banali biondine spumoso-amare fin lì imperanti, e “degustatori” che senza alcun esibizionismo inseguono ormai note provenienti caso per caso dai lieviti, dai legni, dalle resine, dalle spezie. Che arrivano a spendere 10 euro per un litro di birra artigianale, quando un litro di birra industriale costerebbe loro un settimo. Che controllano gli ingredienti, e scelgono con consapevolezza. Che viaggiano all’estero per capirne di più circa stili birrari e aspetti organolettici (tanto più che la sperimentazione gioca anche con castagne, chinotti, pesche, tabacchi, mosti cotti…). Che evitano le superbitter tanto care al “machismo” americano (in accompagnamento ad hamburger e costate, ça va sans dire).
Nel 1996 i birrifici artigianali italiani erano 7, nel 2008 erano 300, nel 2012 erano più o meno 450 (benché la loro birra costituisca ancora solo il 2% dei consumi annui nazionali).
La parola chiave è fin dall’inizio sperimentazione, si comincia dagli ingredienti, dalla biodiversità, dai dettagli, non a caso per produrre le prime birre Teo Musso ha testato – all’infinito, provando e riprovando – circa 350 fra spezie fiori resine erbe… Cento tipi di petali, trenta varietà di coriandolo, venticinque provenienze di radice di genziana… I fornitori, sempre da tener d’occhio… Le resine, croce e delizia… Il tema via via diviene dunque complesso, fascinoso, e un nuovo made in Italy s’allarga, s’afferma nel mondo, ma tutto è partito da Piozzo (CN), da un minuscolo paese-paesaggio che non narrerebbe birra, bensì casomai vino, paesaggio taciturno che si svela talvolta nelle pagine novecentesche di Cesare Pavese, di Nuto Revelli… Che narrerebbe casomai le tradizioni dei tajarin, degli agnolotti, del tartufo, e di molto altro…
A Piozzo c’è la prima birreria di Teo Musso, e adesso, di fronte, anche il suo ristorante minimale, dotato di qualche camera soprastante e di bagno turco, spazi-arredi-cromatismi-profumi che rispecchiano l’indole del proprietario, il bohémien, l’appassionato di musiche etniche, l’imprevedibile…, prendere o lasciare. Uno zio viveva a Montecarlo, chef patissier in un prestigioso hotel, forse questo rappresenta il primo e unico (tenue) collegamento fra il giovane Teo e l’enogastronomia, ma il primo impatto con la birra era stato disastroso, ci volle viceversa una Chimay “tappo blu”, recuperata proprio nel ricco frigo monegasco, per destare il suo interesse, per inebriare i suoi sensi, ecco improvvisamente in bocca cacao, lieviti, frutti secchi… Non a caso, per questa trappista belga “Google” recupera attualmente più di 3mila risultati.
L’articolo prosegue nei prossimi post di BIRRARIO.