3 apr 2012  | Pubblicato in Oleario

Olive e cucine d’Italia. La Sicilia

Oleario, gli olii di Ligucibario“Non ci si può fare un’idea dell’Italia senza vedere la Sicilia. E’ in Sicilia che si trova la chiave di tutto”, scrive uno dei guri del tempo, Goethe, impegnato in un grand tour durante il 1787. La Germania rende onore al Mediterraneo.
E gli fa eco Guy de Maupassant nel 1890: “Sappiamo quanto è fertile e movimentata questa terra, che fu chiamata il granaio d’Italia, che tutti i popoli invasero”.
Effettivamente, in tremila anni di storia ben 12 popoli diversi hanno condotto su quell’isola i propri usi e culture, anche in senso culinario, facendone un baricentro di contaminazioni materiali e immateriali.
Racconta, enfatica, la giornalista Benigna Mallebrein: “I Fenici (XV secolo a.C.) e i Greci hanno portato l’uva (che dava un vino assai aspro e da diluire), le olive e il thermopolion per il cibo da consumare in strada. L’enogastronomia dei Romani (264 a.C. – 535 d.C.) ha portato il lusso in tavola con ricette prelibate e il metodo della lunga conservazione sotto sale o in salamoia. La Sicilia divenne in questo periodo il granaio di Roma. I Bizantini (535 – 837) hanno introdotto l’usanza di bere il vino puro e non diluito. Con gli Arabi, cioè il mondo musulmano (a partire dall’827 d.C.) arrivano il cuscus, la pasta con le sarde (il finocchietto selvatico serviva a smorzare l’odore delle sarde!), lo ytria (intorno al 900) era lo spaghetto in arabo, e i dolci fatti con lo zucchero di canna, unito con il quas’at (la cassata) e con le mandorle da cui la pasta reale. Introducono lo zibibbo – vitigno tunisino – , le piccole arance e tanti vegetali, tra cui i cetrioli, le melanzane, i fagioli, i pistacchi, le carrube, lo zafferano e il riso che oggi troviamo nell’arancina, che tanto volentieri viene gustata, spesso in sostituzione al pranzo completo. Gli Ebrei si distinguevano per la loro salsa d’aglio e olio; una loro grande invenzione è stata il tonno bollito sott’olio intorno all’anno Mille. I Normanni (1060) hanno portato l’uso del camino e lo svevo Federico II, stupor mundi, ha rivoluzionato la cucina con il pane di frumento, le carni fresche con erbe (e non spezie) e con i vini speziati. Gli Angioini (1266 – 1282; rivolta del vespro) hanno lasciato termini che ancora oggi sono in uso come vucciria (il macello) o la boucherie. Gli Aragonesi-spagnoli (fino 1713) hanno introdotto una grande viticoltura. Seguono per pochi anni i Piemontesi (1713-1720) e gli Austriaci fino al 1734. Ai Borboni (1734 – Regno delle due Sicilie fino al 1860) dobbiamo la grande rinascita dei vini siciliani. I Monsieur Le Chef, ovvero i famosi Monsù, celebravano sontuose cucine – la caponata con le melanzane per capponi, cernie e lepri e nello stesso momento la cucina di strada con le panelle, una polenta di farina di ceci affettata e fritta (in origine le fritture risultavano una cottura violentissima, non necessariamente in olio, con sommo disappunto del poeta Gioacchino Belli…, n.d.a.). Verso la prima metà dell’Ottocento arriva il pomodoro come salsa che sostituisce lo zafferano, un fiore che cresceva selvatico in Sicilia. Arrivano il mais, il fico d’India e le patate dall’America. A partire dal 1821 si coltivano i mandarini e i limoni”.
Questo bel testo beneficia di puntuali parallelismi nel “ricettario” di Anna Tasca Lanza, La Sicilia in cucina (Mondadori, 1995), omaggio alla cucina più antica d’Europa, risultato di una terra baricentrica e a lungo ubertosa, barocca in certe sue architetture, ma nitida in certi suoi pergolati “pieds dans l’eau”. Più che un ricettario, una lettura che ad ogni riga regala appassionati scorci di storie e di terre, e alla quale vi rimando.
Le cultivar locali più importanti sono:
Biancolilla, Brandofino, Buscionetto, Calamignara, Carolea, Cerasuola, Giarraffa, Mandanici, Minuta, Moresca,
Nocellara del Belice, Nocellara Etnea, Nocellara Messinese, Ogliarola Messinese, Ottobratica, Santagatese, San Benedetto, Tonda iblea, Verdello
Umberto Curti, Ligucibario®

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