
Ma all’interno di tale contesto, ecco poi più Ligurie “coesistere” in una, la città “patrizia” e la campagna “plebea”, i litorali mercantili e la ruralità interna – dove il mare non si vede più – , il ponente e il levante… E quel che Genova, potenza marittima, andò scovando nelle tante terre che colonizzava o con cui attivava relazioni, entrò presto o tardi nelle ricette che i ceti dominanti e poi borghesi creavano sperimentando spunti, unendo ingredienti, mescolando sapori, arricchendo con aromi. Ecco gli influssi arabi, siculi, spagnoli… Genova cuore del Mediterraneo, mare di acciughe e tonni, di seppie totani naselli “bùdeghi” (bùdego è la rana pescatrice)…, ma i suoi cittadini furono più navigatori e commercianti che pescatori, ecco perché il pescato (per non parlare dei crostacei, in pratica sconosciuti sino alle discese a strascico del XX secolo) cedette non di rado spazio ai prodotti esotici ed emulativi, alle spezie, all’opulenza di alcune carni da “sfoggiare” – il tacchino alla storiona possiede una monumentalità barocca – , di cime farcite ed esibite (la tirchieria addebitata ai Liguri, pertanto, non sembra essere confermata a tavola. Già nel medioevo i governanti ritennero persino di promulgare leggi che invitassero alla moderazione nei banchetti). Mentre il contado frugale seguitava a nutrirsi esclusivamente grazie ai boschi, agli orti e alle eroiche verticalissime vigne (castagne, lumache, ortaggi, olive, frutta, uva, funghi…). Contado che periodicamente doveva anche rifugiarsi sulle alture più scoscese, per scampare alle razzie piratesche che violentavano la costa (destino del Tigullio ma anche della Valle Argentina), e lì bastarsi di quel che c’era, pare che alle spalle di Recco sia nata proprio così la focaccia col formaggio fresco, pare che sia nato proprio così a Badalucco lo stoccafisso “alla baucogna”, piatto distribuito in pubblico e tuttora memoria di scampati pericoli…
Nel complesso, è andata via via confermandosi una cucina salubre, talora più terragna che rivierasca, dove l’elemento vegetale, con la sua freschezza, ripagava i marinai che durante le lunghe navigazioni dovevano cibarsi quasi unicamente di gallette (pani bis-cottati), di alimenti conservati, di prodotti secchi, disidratati affinché durassero, non ammuffissero. Peraltro, tali vincoli furono alla base di geniali ideazioni, quali le “capponadde” (capponalde, piatu freidu, carbunere…), che alla lunga “indussero” il capolavoro chiamato cappon magro.
Una cucina che continuamente propone forme di finger food da spiluccare – appunto con le dita – dentro i cartocci, passeggiando per i vicoli dei centri storici col naso all’insù, focaccia, panissette, frisceu (frittelle), ma anche la sardenaira imperiese con pomodoro, olive e acciughe/machetto e quei panigacci spezzini che si degustano ottimi con salumi e formaggi (cibo povero e fragrante, come vedremo la focaccia è una classica specialità “da strada”, e alla semplice versione originale vengono aggiunti altri ingredienti come cipolle e olive, creando numerose varianti)…
Una cucina che sposa le sue paste (mandilli, trenette, troffie, ovvero lasagne linguine gnocchetti…) ad una salsa da mortaio inimitabile, ma ottocentesca e non più antica nella sua versione “condivisa”, chiamata pesto.
Che continuamente esalta le verdure dentro i ripieni, le torte salate, i ravioli e i panciuti “pansoti” di magro – ecco il miracolo del preboggiòn, 32 erbe una più profumata dell’altra – , le frittate, le tomaxelle (sono involtini di carne)…
E poi naturalmente, viste le tendenze del XX secolo e del turismo dilagante, anche il progressivo successo del pesce, che sempre più consolida la propria presenza anche dentro i menu dei ristoranti sotto forma di buridde, ciuppin, zuppe, zemin, brodetti e umidi, accanto beninteso allo stoccafisso e al baccalà, giunti oltre quattro secoli fa dai mari nordici (ma la salagione del baccalà, forse, attraverso i Paesi Baschi) e divenuti ben presto oggetto di innamoramento, per non dire di fanatismo. Anche il mare nondimeno, pescoso o no, trafficato o no, racconta l’evoluzione dei liguri. Le agili ma robuste barche venivan spinte, a remi, voga voga voga, nei regni del pesce azzurro: pesce detto “povero”, ma dal gusto paradisiaco! Le alici, nettate direttamente sulla riva, poste in barili (dal nome diverso a seconda del paese) e così rese conservabili erano spesso vendute dalle donne, che le portavano in ceste, a piedi, fino all’entroterra… Infine, è tutta ligure anche una creatività misurata e sagace nei dolci, fra cui spiccano le esecuzioni semplici, quasi quotidiane, che approdano ad amaretti, anicini, biscotti, canestrelli, cobeletti (“cappelli” di pastafrolla con confettura), ma anche tradizioni contadine quali il castagnaccio e le rustìe (caldarroste), per giungere a vette eccelse, ma complesse, quali le canditure e confetture, il pandolce lievitato, la spungata e la torta sacripantina, la klaingutina… Ma questi sono sfarzi che talora narrano vicende più recenti legate a specifici pasticceri.
Nel complesso, è andata via via confermandosi una cucina salubre, talora più terragna che rivierasca, dove l’elemento vegetale, con la sua freschezza, ripagava i marinai che durante le lunghe navigazioni dovevano cibarsi quasi unicamente di gallette (pani bis-cottati), di alimenti conservati, di prodotti secchi, disidratati affinché durassero, non ammuffissero. Peraltro, tali vincoli furono alla base di geniali ideazioni, quali le “capponadde” (capponalde, piatu freidu, carbunere…), che alla lunga “indussero” il capolavoro chiamato cappon magro.
Una cucina che continuamente propone forme di finger food da spiluccare – appunto con le dita – dentro i cartocci, passeggiando per i vicoli dei centri storici col naso all’insù, focaccia, panissette, frisceu (frittelle), ma anche la sardenaira imperiese con pomodoro, olive e acciughe/machetto e quei panigacci spezzini che si degustano ottimi con salumi e formaggi (cibo povero e fragrante, come vedremo la focaccia è una classica specialità “da strada”, e alla semplice versione originale vengono aggiunti altri ingredienti come cipolle e olive, creando numerose varianti)…
Una cucina che sposa le sue paste (mandilli, trenette, troffie, ovvero lasagne linguine gnocchetti…) ad una salsa da mortaio inimitabile, ma ottocentesca e non più antica nella sua versione “condivisa”, chiamata pesto.
Che continuamente esalta le verdure dentro i ripieni, le torte salate, i ravioli e i panciuti “pansoti” di magro – ecco il miracolo del preboggiòn, 32 erbe una più profumata dell’altra – , le frittate, le tomaxelle (sono involtini di carne)…
E poi naturalmente, viste le tendenze del XX secolo e del turismo dilagante, anche il progressivo successo del pesce, che sempre più consolida la propria presenza anche dentro i menu dei ristoranti sotto forma di buridde, ciuppin, zuppe, zemin, brodetti e umidi, accanto beninteso allo stoccafisso e al baccalà, giunti oltre quattro secoli fa dai mari nordici (ma la salagione del baccalà, forse, attraverso i Paesi Baschi) e divenuti ben presto oggetto di innamoramento, per non dire di fanatismo. Anche il mare nondimeno, pescoso o no, trafficato o no, racconta l’evoluzione dei liguri. Le agili ma robuste barche venivan spinte, a remi, voga voga voga, nei regni del pesce azzurro: pesce detto “povero”, ma dal gusto paradisiaco! Le alici, nettate direttamente sulla riva, poste in barili (dal nome diverso a seconda del paese) e così rese conservabili erano spesso vendute dalle donne, che le portavano in ceste, a piedi, fino all’entroterra… Infine, è tutta ligure anche una creatività misurata e sagace nei dolci, fra cui spiccano le esecuzioni semplici, quasi quotidiane, che approdano ad amaretti, anicini, biscotti, canestrelli, cobeletti (“cappelli” di pastafrolla con confettura), ma anche tradizioni contadine quali il castagnaccio e le rustìe (caldarroste), per giungere a vette eccelse, ma complesse, quali le canditure e confetture, il pandolce lievitato, la spungata e la torta sacripantina, la klaingutina… Ma questi sono sfarzi che talora narrano vicende più recenti legate a specifici pasticceri.
Le cultivar locali più importanti sono:
Colombaia, Lavagnina, Lizona, Merlina, Mortina, Pietrasantina,
Pignola, Pignola d’arnasco o arnasca, Razzola, Rossese, Taggiasca.
Pignola, Pignola d’arnasco o arnasca, Razzola, Rossese, Taggiasca.
Ritorneremo sull’argomento, riservando un inchino a sua maestà la taggiasca, poca carne e tanto gusto, madre di un olio fra i migliori del mondo…
Umberto Curti, Ligucibario®