“Ritratto di famiglie”, e di sapori rurali, fra Pontinvrea e Pareto
L’11 dicembre ricorre la “Giornata internazionale della montagna, in difesa della biodiversità”. Riflettevo che la Liguria montana è di rado sotto i riflettori, pur caratterizzata da cime quali il Saccarello a ponente (2.200 m) e il Maggiorasca (1.800 m) a levante…, e vantando culture malgare e rurali, d’Alpe e Appennino, profondamente identitarie anche nei riti delle feste e delle cucine.
E’ il 24 dicembre, anni ’50 in un piccolo paese dell’entroterra savonese dove mio padre Berto, classe ’39, lavora (di quei tempi non ci si formalizzava sull’età dei “dipendenti”) insieme a tutta la propria famiglia (4 fratelli più i due genitori) nell’osteria che porta il nome della mamma: “Da Anselmina”. Tutti coloro che poterono apprezzare l’arte culinaria di mia nonna mi ripetono, quando finiamo in tema, quanto fosse talentuosa come cuciniera – definirla cuoca o ancor peggio chef visti gli standard attuali per definirsi tale mi induce ad un’affettuosa ilarità – , ed infatti i suoi manicaretti richiamavano, soprattutto nella bella stagione, numerosi clienti dalle limitrofe località (ad esempio Savona e Cairo Montenotte, ma vi erano alcuni habituè addirittura da Nizza Monferrato e Canelli).
Tuttavia, in questo particolare periodo invernale, a causa delle temperature rigide, delle abbondanti nevicate e comprensibilmente dell’assenza di autovetture circolanti, gli unici avventori (a piedi!) erano le famiglie delle vicine frazioni o dei numerosi minuscoli abitati spersi e sparsi qua e là nei boschi, avventori i quali, dopo la Messa di Natale celebrata allo scoccare di mezzanotte nella chiesetta parrocchiale “Santissimo Nome di Maria”, si riunivano numerosi in quell’osteria di famiglia, per una sorta di veglia fra parenti e vicini (passatempo consueto nei lunghi inverni), al fine di scambiarsi gli auguri delle Feste, bere un bicchiere di vino e, perchè no?, mangiare uno di questi immancabili piatti – segnalo che si era ormai fatta l’una di notte – , veri e propri signature dish sempre presenti in carta (segue elenco, astenersi vegani e salutisti):
- zaria o zrarìa: in dialetto ligure deriva da gelo ed è una sostanziosa pietanza composta da un brodo nel quale vengono cotti, per almeno 5 ore, pezzi di carne di vitello e maiale, con l’imprescindibile aggiunta, meno nobile, di zampetta, testina, orecchie, lingua e sottogola (1); questa sorta di bollito misto veniva poi minuziosamente disossato ancora a caldo e messo in un capiente contenitore a “cassetta”, pressando per dargli una forma rettangolare e, una volta freddo e compattato, per tagliarlo a fette, posizionate poi in piatti fondi con l’aggiunta di alcuni mestoli del brodo di cui sopra e riposte infine ad “addensarsi” in alcune stanze fredde della casa (che non mancavano mai). Che dirvi…, piatto scarsamente instagrammabile, ho contato meno di 4 (temerari ma ammirevoli) post, ma ben noto a Ligucibario® (per esempio a questo link) ed in quegli anni amatissimo e forse più diffuso rispetto al presente. Ad Alpicella, sopra Varazze, dove gli dedicano festeggiamenti, Umberto Curti mi precisa anche che lo chiamano zeaia, e verificherò se è diventato de.co.;
– salame di solo suino (rigorosamente macellato ed insaccato dalla casa);
– salsiccia (vedi sopra) “a pasta grossa”, caratterizzata da un’ “appassitura” in prossimità del calore della stufa;
- berodo: in italiano è il sanguinaccio (dal latino “biroldus”), piatto natalizio della tradizione anche ligure, preparato col sangue raccolto dalla macellazione del maiale (tradizionalmente nella sola giornata di Santa Lucia il 13 dicembre, poi per praticità – all’occorrenza – durante tutto il periodo invernale). Altri possibili ingredienti di questo che potrebbe rientrare tra gli insaccati più splatter della storia gastronomica: latte, cipolle, pinoli, uvetta, sale ed erbe aromatiche;
– formaggette di latte vaccino o di pecora oppure
– una scodella di castagne fumanti bollite con la loro buccia (in dialetto baletti o vegette), anche in Liguria, non a caso, il castagno è “l’albero del pane”.
Sul versante piemontese della mia famiglia troviamo invece mia mamma, l’adorabile Silvana, classe ’47, che viveva insieme ai genitori ed alla sorella in un piccolo paesino in provincia di Alessandria, a confine con la Liguria. Ci trasferiamo dunque a Pareto (luogo colombaniano e aleramico e fino al 1880 provincia di Genova) e la sera della vigilia, il 24, alla tradizionale Messa di mezzanotte seguiva un veloce brindisi tra famigliari, analcolico ma non per questo meno ambito – di quei tempi anche quelle della spuma erano bollicine della festa… - , compagno di una fetta di panettone, chiamato in dialetto l’ambrosiano alto, rigorosamente homemade e cotto nel forno a legna del cortile. Ma da queste parti è il pranzo del 25 ad esser particolarmente ricco e ghiotto:
– antipasti misti comprendenti salumi (salame cotto e crudo, pancetta e lardo), cotechino, anche qui i berodi, formaggette fresche e funghi sott’olio;
– le frizze, o grive, vere regine del Natale, ovvero polpette composte dal fegato del maiale tritato, la pasta della salsiccia, uova, formaggio grana, noce moscata e bacche di ginepro a donare l’inconfondibile sentore, sale, pepe, ed infine avvolte nella rete del maiale (omento o retìna) e cotte (leggi fritte) nell’olio: probabilmente, se mi consentite un minimo d’autobiografia, il mio piatto preferito in assoluto, di quelli che porterei sull’isola deserta se costretta ad una rigidissima scelta;
– ravioli/agnolotti ripieni di carne e cavolo verza, serviti nelle capienti tazze della colazione in cui veniva versato vino rosso (Barbera o Dolcetto non importa, purché corposo);
– cappone bollito, o gallina, accompagnati da appetitoso bagnèt verd; e il brodo di cottura veniva utilizzato alla sera con i cappelletti e… (cito testualmente) “per rimanere leggeri”(!);
- talvolta arrosto di maiale
– e, per finire, un trionfo di dolci: il panettone tagliato la sera prima, le pere cotte nel vino (aromatizzate con chiodi di garofano e cannella), il monte bianco i cui ingredienti erano tutti a km0 (castagne bollite, nocciole tostate e panna), i datteri e i fichi secchi…
Insomma, era veramente una gran festa!
(1) sull’uso del “quinto quarto” nelle regioni d’Italia ed anche in Liguria vedi U. Curti, Il quarto numero cinque. Trippe, busecca, lampredotto… Storia e ricette, ed De Ferrari, Genova, 2014 (al link)