Si è tenuto a Milano il 7-8 luglio Revitalizing the Mediterranean Diet, 1^ conferenza mondiale su di un “patrimonio culturale” nato e affermatosi sulle nostre sponde. Ma pochi o forse nessuno rammentano il convegno internazionale (Cultura e storia dell’alimentazione) che l’accademico Giovanni Rebora nel marzo 1983 coordinò ad Imperia, un centinaio gli studiosi, ed i cui Atti, a cura di Rebora stesso e Antonella Bicci, uscirono gli anni successivi. Lì, da quelle voci, uno stile alimentare emerse già nei suoi valori di compiuto modus vivendi.
Ventun anni dopo, nel 2004, morì centenario Ancel Keys, l’americano del Cilento, l’inventore delle razioni ‘K’ per l’esercito e in qualche modo il primo biologo nutrizionista della storia, ispiratore di quella piramide, oggi revisionata, che nei decenni fece scuola circa cosa privilegiare a tavola e cosa abiurare (ma ieri come oggi il parere ad personam del dietologo va sempre anteposto al fai-da-te).
La triade ulivi-cereali-viti campeggia da sempre al centro della nostra scena enogastronomica, e a puro titolo d’esempio la sola Sicilia detiene ben 52 varietà di grani antichi su 291 esistenti prima del 1927 (periodo in cui l’agronomo Nazareno Strampelli prefigurò l’ingegneria genetica nella cerealicoltura). Ma oggi in Italia – secondo alcune fonti – si rottamano, colpevolmente, 76 kg pro capite di cibo ogni anno, avanzi, derrate scadute, per un valore d’oltre 300 euro. E in Liguria sono svaporati nell’ultimo trentennio circa i ¾ delle agricolture, trend esiziale se si pensi a quanto proprio la biodiversità, di fatto, giovi alla brevità delle filiere e alla stagionalità delle cucine di casa e fuori casa.
Nei ricettari peculiarmente di mare, di porto (luogo di commerci) e d’orto come il ligure – nel quale trionfa non a caso l’extravergine – i nutraceutici si confermano pane pasta e riso, purché integrali o quasi, le patate, i legumi, i broccoli, il pescato, la frutta fresca e a guscio…, in Liguria bàlzano subito in mente alcuni pani antichi, la pasta avvantaggiata, le torte baciocche, i ceci in zimino, le mes-ciùe, le acciughe “fitö faete”, la cubaita, le salse a crudo… Riti virtuosi, innumerevoli, e bilanciati, in antitesi a burro e strutto, carni rosse, formaggi molto grassi e fermentati, cereali iper-raffinati… In antitesi, soprattutto, a prodotti (e cibi pronti) letteralmente pervasi dalla chimica, al trash food, alle bombe zuccherine nascoste dentro tante merende e bibite, all’invadente manipolazione genetica e transgenetica, capace di “disorientare la memoria biologica del nostro apparato gastrointestinale” – il concetto ricorre in numerosi, inquietanti docufilm scientifici consultabili anche on line, ad es. “X grain – Regola n.1 salvare la pelle!”, e che meriterebbero ampia diffusione nelle scuole – .
Là dove molti adulti tendono a consultare poco o nulla le etichette, è illusorio sperare che lo facciano gli adolescenti. Ma il boom delle intolleranze e patologie legate al cibo è sotto gli occhi di chiunque voglia, pur senza convertirsi a letture radicali come l’arcinoto The China Study, tenerli aperti. E talora parrebbero imputati quegli alimenti, si pensi al frumento, che in origine hanno consentito all’umanità di sopravvivere. Com’è accaduto??
Questioni dunque assai cogenti, nel momento storico in cui si dibatte anche circa il cosiddetto TTIP (transatlantic trade and investment partnership), che introdurrebbe in Europa carni da allevamenti, e ortaggi da agricolture, cui molti addebitano il ricorso a sostanze, ormonali e pesticide, rispettivamente cancerogene e tossiche. E infuria la polemica.
Umberto Curti
12 lug 2016 | Pubblicato in Ligucibario
Mediterraneo a tavola
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