Si commentavano, con un’Ambasciatrice di Genova nel mondo, le bilateralità gastronomiche con Londra e dintorni. Non molte, per la verità…: il pandolce (genoa cake), là più ricco d’uvetta che di pinoli, e i cosiddetti biscotti di Garibaldi, sorta di gallette del marinaio anch’esse con uvetta.
Londra anche per me ragazzo fu una meta da scoprire, correva l’anno domini 1990, prima che l’aereo partisse mi allertarono circa la difficoltà di nutrirsi “decentemente” in terra d’Albione, ma poi seppi cavarmela alternando fette di eccelsi roast beef a ristoranti indiani. Su Londra ciascuno ha i propri aneddoti, io – personalmente – per la sera di capodanno prenotai un tavolo in un locale (se ricordo bene) della zona di Oxford street, ma alle 23.00 – terminate le portate in menu – mi comunicarono garbatamente che chiudevano, nemmeno un brindisi all’anno veniente!
A Londra m’imbattei anche in un ristorante “La Genova”, e se all’estero non entro mai o quasi in ristoranti italiani, quella volta sentii di fare un’eccezione (nella foto i fiammiferi, che da allora conservo). Conobbi un tigullino cordialissimo, tifoso (purtroppo per me) del Genoa, e amico di molti vip e dell’Ambasciatore italiano. Malgrado la mia fede calcistica mi riservò uno dei tavoli migliori e mangiai come un re. Temo che oggi quel magnifico luogo non sia più in attività, ma la mia gratitudine ha traversato 30 anni immutata, e dunque spero di sbagliarmi.
Per chi come me si occupi di turismo, Londra è anche una case history da proporre nei corsi di formazione (e Luisa Puppo, specialista di Gourmet English, è maestra in questo).
Come ho approfondito nel mio ultimo saggio * , sin dal 1998 un coraggioso “Libro Bianco” governativo tratteggiò infatti la vision cui la città doveva complessivamente ispirarsi, e in cui marketing territoriale e turistico implicitamente s’intrecciavano. Quel “libro” ritrovava e dilatava temi presenti nelle politiche di promozione veicolate dall’English Tourist Board fin dal 1987.
“Sustainable development is about ensuring a better quality of life for everyone now and for generations to come and encompasses environmental, social and economic goals. It is about protecting, and where possible enhancing the environment, not just for its own sake, but because a damaged environment will sooner or later hold back economic development and lower the quality of life. It is about seeking to satisfy people’s basic needs and giving people the opportunity to achieve their potential through education, information, participation and good health. And it requires a robust economy to create the wealth that allows needs to be satisfied now and in the future”.
Ne discendeva una pianificazione grazie a cui London Millennium City, con le sue risorse tangibili e simboliche (anche ad un italiano balzano in mente la City, Buckingham Palace, il Big Ben, la Tower col London Bridge, i musei, la Borsa, i taxi, i double decker, Harrod’s…), si candidava a centro dell’economia europea ma nel rispetto dell’identità locale, a città multiculturale poiché pluralista per coesione, equità ed inclusione, a città della flessibilità e della mobilità (hub…), a città verde di parchi, a città perno per i business, i media, la cultura, il know-how tecnologico. L’investimento dei privati risultava essenziale, perfino gli outlet per il commercio dei souvenir avrebbero operato in franchising. Parliamo di una metropoli con quasi 20 milioni di visite l’anno, di un aeroporto presso cui ogni giorno decollano/atterrano decine e decine di aerei in volo verso/da 250 destinazioni internazionali (World Energy, n. 40, ott. 2018, pp 62-64). Parliamo di Dome, Docklands (con l’alta metropolitana), Millennium Wheel (London Eye), le sub-aree di Greenwich Peninsula e Tamigi Sud (South Bank), di musei, eventi, ricorrenze, football… Alberghi e guest houses, infine, venivano assoggettate a un accurato monitoraggio (modello Star and Diamond), e il rating (AA/RAC) derivante da ispezioni e questionari ai turisti individuava/confermava le strutture più meritevoli di sostegno.
Quando una città espande i propri ruoli, di solito attira imprese e business, e Londra via via si elevò a celebre capitale anche in senso gastronomico, affollandosi di chef mediatici e ristoranti high level. Al tempo, i profitti giustificarono quella rincorsa.
La crisi generale (iniziata vari anni prima del coronavirus) che ora, complice anche la Brexit, affligge il comparto annientando anche alcune mode transeunti, sovente va anzitutto imputata al fatto che una competizione basata sulla qualità (e dunque sui costi che tale qualità impone) ha giorno dopo giorno eroso la quantità di avventori, ovvero sono mancati i “numeri”, i coperti, idonei a sostenere l’impegno economico. In un tempo di ricorrenti congiunture negative, è arduo intercettare costantemente target che – per passione gourmet e capacità di spesa – riempiano i posti a sedere ben oltre il break even point… Talvolta, poi, alcune imprese sono state vittima – come si suol dire – di un passo troppo lungo rispetto alla gamba, di una crisi da successo, che ha imposto, per fronteggiare la concorrenza, continue ristrutturazioni verso l’alto e che – sommandosi ai salari, gli affitti, le tasse sulla proprietà immobiliare – ha bruscamente interrotto “cicli di vita” fin lì più che prosperi.
Le entrate non sono ipso facto ricavi.
I social media poi, dove di continuo gli avventori postano foto dei luoghi e dei piatti, presto trasforma – per quanto siano surreali tali dinamiche – il trendy in obsoleto, la nicchia da intenditori in déjà-vu saturo. La fruizione usa-e-getta di notizie e contenuti accelera “viralmente” ascese e cadute.
E’ la globalizzazione, bellezza. Sono tuttavia rimasto molto colpito dalle vicende relative a Jamie Oliver e poi a Gordon Ramsay, alla catena di ristoranti “italiani” Carluccio’s (il cui fondatore Antonio era morto nel 2017), ma anche a “Byron” (hamburger), a “Chiquito” (cucina tex-mex), e leggo che la stessa catena Prezzo sta alle prese con un’ardua fase di riaggiustamenti.
Dining crunch, è stato definito questo tragico scricchiolio, per non dire scossone. Se oggi i turisti italiani mi chiedessero – verosimilmente dopo aver navigato lo tsunami di spunti reperibili online – dove mangiare a Londra, pizza compresa (dato che talora essa è un po’ ovunque una via di scampo sia gastrica che economica) ** , dovrei e vorrei riflettere un momento. I trend, peraltro, dimostrano che ormai sarebbe più facile rispondere a turisti vegetariani e vegani…
* U. Curti, Libro bianco del turismo esperienziale, ed. Sabatelli, Savona, dic. 2018 (ordinabile anche online sul sito dell’editore)
** sul segmento pizza si veda sin dal 2018 https://www.repubblica.it/economia/2018/03/31/news/la_luna_di_miele_con_londra_e_in_crisi_chiusure_a_raffica_per_le_pizzerie_italiane-192571029/
Umberto Curti