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Ma in cosa risiede il successo del pesto rispetto alle salse “consorelle”? Di sicuro nell’essersi affermato infine come condimento per pasta – e sarà un caso se Genova (insieme alla Sicilia) già dal Medioevo si posizionava come la più importante realtà mediterranea per il commercio dell’alimento in questione, in origine “creato” dagli arabi? La Liguria, “porto” in cui sole e vento non mancavano mai d’aiutare le essiccazioni, per commerciarla ne diventò anzi una delle principali produttrici, i fidelari del ‘500 essendo una potenza economica (i pastai si aggregavano ovunque in corporazioni, vermicellari, lasagnari…, per condividere le ingenti spese e sopravanzare i fornai).
Nella prima metà dell’Ottocento ha luogo la svolta, che manleva il pesto da incombenze “verdi” con carni e pesci. Diminuisce (per poi sparire) l’aceto, appare il formaggio (e qui a qualcuno potrebbe venire in mente il moretum ** , formaggio aromatizzato di epoca romana che Apicio, il gastronomo d’età imperiale, impreziosiva con erbe fresche, ma il “link” concettuale rischia l’arditezza).
Il tutto testimoniato dai tanti ricettari che – a partire dalla metà del XIX secolo – ci trasmettono le prime ricette “codificate” relative all’uso del pesto come salsa per pasta. Fornisce conferma della notorietà “quotidiana” del pesto anche la letteratura popolare del tempo: in una poesia del trentatreenne sacerdote-poligrafo Luigi Michele Pedevilla (1815-1877), un Balilla fumantino dichiara che non andrà in Portoria in cerca di torte e farinate, né “…pe vedde fâ ö pesto in to mortâ”, uso verosimilmente diffuso. Circa i formati di pasta, si affermano i cult di ieri e di oggi: lasagne sottili come mandilli di seta, picagge (sono larghe fettuccine), trenette (sono bavette, linguine), gnocchi (trofie), trofiette del Golfo Paradiso, reginette…, tenendo tuttavia a mente che il pesto non amerebbe l’uovo.
La lettura dei ricettari tra Ottocento e primo Novecento, dalla “Cuciniera” di Ratto (1863), alla fors’eccessiva ”Cuciniera” di Rossi (1865) fino alla “Cucina di Strettissimo magro” di Dellepiane (1880) – e beato colui che entrasse in possesso delle sintesi (1910) di Emerico Calvetti! – garantisce informazioni significative sul pesto d’antan. In primis, obbligo di stagionalità: il pesto era un piacere esclusivo della bella stagione, quantomeno fino alla diffusione del basilico in serra (1870 – 1880). Le modalità allora utilizzate per conservare la preziosa erba aromatica – essiccata, sotto sale e sott’olio – mal si prestavano infatti alla preparazione della salsa, che nei mesi meno propizi veniva spesso preparata anche con l’aggiunta di altre erbe. Chi oggi inorridisce di fronte alla menzione del burro nella ricetta di Ratto deve considerare che in molte aree della regione (soprattutto interne) l’olio di oliva proponeva una rarità e un costo purtroppo ben noti, si adoperava con eccezionale parsimonia, farmaco da contagocce. Stesso discorso per il formaggio: alla pari dei grassi usati per legare il composto, anch’esso veniva scelto in funzione di economicità e disponibilità. Ecco dunque l’uso della prescinsêua (cagliata) nel Levante, e ancora l’abbordabile pecorino sardo, l’olandese Gouda, le formaggette “anonime” prodotte dai tanti contadini liguri, e un “piasentin” forse precorritore di grana padano e parmigiano… I pinoli erano una “cara” utopia, talora addirittura assenti, spesso integrati (se non sostituiti) dalle domestiche noci (ricordiamo, debitori a Fred Plotkin, che nel mondo arabo la presenza di frutti a guscio oleosi nelle salse ricorre assai comunemente, e per secoli Genova ha intrattenuto commerci e scambi con tutto il Mediterraneo…).
Persino il nutrizionista genovese Lorenzo Piroddi (1911-1999), autore nel 1993 di “Cucina mediterranea”, propone un pesto nel complesso sorprendentemente poco fedele, a causa della presenza – in veste di veri intrusi – di foglie di prezzemolo e pepe macinato.
Da sempre, la necessità aguzza l’ingegno – anche in cucina. Alle massaie dell’entroterra il pesto deve ad esempio due importanti comprimari, simboli della cucina povera e “rinforzata” delle aree montane: le patate (quando padre Michele Dondero nel ‘700 le “sdoganò”…), che aumentavano la resa della pasta, e le castagne, la cui farina sostituiva efficacemente ampie percentuali di farine più nobili. “Quel che c’è, quando c’è”: questo il dogma di un’epoca pragmatica che oramai ci appare remotissima, ispirato ai principi di stagionalità, risparmio, creatività e – indubbiamente – ricerca di aromatica piacevolezza.
Umberto Curti, Ligucibario®
Leggi la parte 3 http://www.ligucibario.com/tutto-quello-che-avreste-voluto-sapere-sul-pesto-e-non-avete-mai-osato-chiedere-parte-3/