Stasera risfoglio un po’ le guide Michelin, L’Espresso, Veronelli ecc. da fine anni ’70 in avanti… Quanti cambiamenti sono intervenuti relativamente al cibarsi e alla ristorazione! Anche nella mia faccia, temo, se mi guardo allo specchio.
Tu ti ricordi di Mirella e Peppino Cantarelli, che dal ’53 avviarono la bottega-ristorante a Samboseto, presso Parma? Per trent’anni strabiliarono i clienti (il verbo è riduttivo), compresa una fila di VIP e compreso mio suocero. Ai piatti s’abbinava una cantina incredibile, Francia avant tout. Mirella andò in cielo qualche anno prima del marito, chissà che ora non preparino le migliori ricette dei ristoranti celesti.
Quanto a mio suocero, gourmet impenitente malgrado i problemi di salute, il suo cuore in quegli anni batteva anche per il “Corona” di Bosco Marengo (AL), condotto da Luigi Lombardi, e per capolavori quali mousse di tonno, insalata russa, pasta e cannellini, suprème di pollo, gelato al forno.
Ti ricordi poi di Angelo Paracucchi (1929-2004), che scelse un angoletto di verde e di pace in quel di Ameglia (SP) e lì seppe fondere l’alta cucina e le ricette più rustiche della Lunigiana? A leggerle, quelle ricette, ti occorrerebbe un traduttore, la cucina di Pontremoli, Sarzana e dintorni – tre regioni in una? – regala infatti parole come barbotta, brosseghe, carsenta, frascadei, kizoa, marocca, panigaccio, pota alvolta (e rivolta), scarpazza, sgabeo…
E il nome di Nino Bergese (1904-1977) ti dice qualcosa? Su Ligucibario® a Bergese ho già dedicato un lungo pezzo (assai nostalgico, va detto), quelli erano anni gloriosi per Genova, e Nino – alla “Santa” in vico Indoratori – coniugava tutela della tradizione ed esperimenti creativissimi, tanto da meritarsi 2 stelle Michelin. Il suo risotto al fondo di cottura – si dice tuttora in città – creava dipendenza psicofisica. Poi nel 1974 Bergese cedette ai pressanti inviti di Gianluigi Morini, che lo voleva al “San Domenico” di Imola * , altro tempio del buonessere, aperto appena quattro anni prima. “Santa” addio.
Ma in un caruggio poco distante incontravi anche “Mario”, ai Conservatori del mare * , pesce indimenticabile, ritrovo di ghiottoni genovesi che tuttavia qualche volta lo tradivano per il vicino “Pichin” o il vicino “Ulivo”.
Ma intanto ti sarà tornato alla mente anche Georges Cogny (1932-2006), il francese di Versailles che scelse l’Appennino di Piacenza (e la minuscola Farini d’Olmo), creandovi una locanda “Cantoniera” i cui fornelli alternò con quelli dell’”Antica Osteria del Teatro” * di Piacenza, maestro dei maestri, e dunque non aggiungo altro.
Ecco poi – non può mancare – un flash sul “Cabiria”, a Loano (SV), “paradiso dei buongustai” recitava l’insegna sul tetto, ristorante condotto dalla famiglia De Negri, che gastronomicamente guardava anche al Piemonte. Ho avuto pochi anni fa il privilegio di conoscere Annette De Negri in persona, ormai centenaria o quasi, ma una delle persone più giovani, curiose, sorridenti e preparate ch’io abbia mai incontrato. Gli anni sono momenti, dell’anagrafe non bisogna mai fidarsi ciecamente, molti ragazzi sono più anziani degli anziani. Un poco Annette si doleva del troppo formaggio nei piatti di certo entroterra savonese. Chissà dov’è stasera, mi mancano i suoi vividi racconti.
E la nouvelle cuisine importata da Gualtiero Marchesi nel suo locale in Bonvesin de la Riva (Milano), ben prima di trasferirsi ad Erbusco (BS)? Correva l’anno 1977, io entravo al ginnasio armato di molte speranze e del mio vespino 50. A tratti sembra trascorso un secolo, a tratti quell’approccio (eleganza dei piatti, misura nelle porzioni, geometrie di colori, esaltazione della materia prima, rispetto del passato…) si conferma come uno dei più attuali, anche per contrastare i pressapochismi del melting food e del cibo un tanto al chilo, o – all’opposto – i sifoni ad ogni costo dei destrutturatori.
A mio padre, poi, piaceva “Salvo Cacciatori” * a Imperia-Oneglia, dal 1905 un presidio per quanti vogliano pesce fresco e verdure locali. Per fortuna – la frequento spesso – Oneglia è rinata, trovo Calata Cuneo uno degli attracchi più belli del Tirreno, ad un passo dagli animati portici neoclassici di via Bonfante. Gli piaceva altrettanto, mutando scenario, il “Bel soggiorno” * di Cremolino, colline ovadesi in provincia di Alessandria, brume e vigne, dove Mario Benzo, dal 1967, allestiva una successione di portate (cominciando dalla quindicina di antipasti freddi e caldi e dal salame “maison”) che avrebbe ridestato un defunto. Il vino in abbinamento era quasi sempre non Dolcetto bensì Grignolino (i migliori sono quelli del Monferrato Casalese). Gli piaceva, infine, anche la trattoria “I Mosto” * a Ne, nel verde dell’appartata val Graveglia (GE), dove il patròn Franco Solari (mancato nel 2011 appena 57enne) deteneva una collezione di vini tra le più interessanti in Liguria. Ma io rammento perfettamente anche i suoi testaroli, i mandilli de saea, la gallina lessata e farcita (con salsa verde, naturalmente).
Quando poi, d’estate, per trovare un poco di frescura viaggiavamo verso Malosco in val di Non, la tappa non potevano che esser “Le arche” * , il ristorante più antico di Verona, dove Giancarlo Gioco ci tentava con un menu delicato e – se ricordo bene – dei Lugana da favola nei calici, il Lugana è per me l’espressione più alta del trebbiano. Di una cena del 1989 ho conservato la ricevuta, e mi chiedo: ma dopo quella beatitudine ci rimettemmo in autostrada?? Una volta, era il 1986?, da Malosco salimmo anche a Santa Gertrude in val d’Ultimo, per mangiare – forse cervo al ginepro – alla miracolosa “Genziana” di Godio, su Ligucibario® due anni fa dedicai un pezzo anche a questo locale, Godio ormai era deceduto nel 1994 in un tragico incidente aereo, sul web leggo che la struttura, in abbandono, via via si ridusse ad un rudere.
Viaggiare in Italia, decine e decine di amarcord, le auto senz’aria condizionata, il saluto col clacson incrociando targhe della stessa provincia, le autoradio Voxson, i libri di Paolo Monelli, Mario Soldati, Luigi Carnacina, Vincenzo Buonassisi, e dell’immenso Gino Veronelli, che il pubblico conobbe grazie alla trasmissione RAItv con Delia Scala, Umberto Orsini e Ave Ninchi… Gino Veronelli – la cui madre era di Finalborgo – trovò addirittura il tempo di scrivermi il suo “in bocc’al lupo” quando nel 2000 avviai insieme a Luisa l’azienda con cui tuttora sto sul mercato.
Fugit inreparabile tempus… Bologna erano le lasagne, i bolliti e gli arrosti di “Bertino” * . Modena era “Fini”, per i turtlen. Pavia era la “Locanda Vecchio Mulino” * alla Certosa. Alessandria era “Alli due buoi rossi” * , rammento che un dicembre di una vita fa (aveva pure nevicato) prepararono un bollito misto da guinness. Alba era la fricia del “Vigin Mudest” * . Cuneo erano i “Tre citroni”, coi salottini in pelle rossa, ad un passo dalle corriere che mi ammaliavano, perché salivano sù per le valli montane, la Maira, la Varaita. Torino era il “San Giors” * , datato 1820, il più antico ristorante cittadino (il “Cambio” si classifica secondo), quartiere Borgo Dora un po’ sgarrupato e atmosfera un po’ fané, ma piatti della più rigida tradizione, a cominciare dal guéridon con gli antipastini prima freddi poi caldi, la battuta di fassone, gli agnolotti…
Costoro, quelli ai cui tavoli ho avuto il privilegio di sedere, sono stati, per così dire, i Bocuse, i Vergé, i Troisgros, i Père Bise della mia giovinezza. Anche la miglior cucina tricolore, infatti, non ha mai dimenticato le ricette ruspanti, del terroir, le 20 regioni dentro la trattoria, le pietanze “plebee” nate talvolta dal riciclo di quel che c’era dal pasto precedente…, la miglior cucina italiana si conferma sempre quella che valorizza il futuro tutelando il passato, senza stravaganze e snobismi che rischiano la precarietà delle mode banali.
Quando ripenso a certi “deschi” anni ’70-‘80, ai sapori appaganti, ai primi eccitanti apprendimenti circa il cibo e il vino, credo che per fortuna in Liguria vi siano ancora cuochi capaci di tenere accesa quella fiaccola della grande tradizione regionale, mi riferisco ad esempio all’”Armanda” * di Castelnuovo Magra (116 anni di attività), ad “Arvigo” * di Genova-Cremeno, a “Quintilio” * di Altare, dal 1889 il miglior desco della val Bormida savonese, alla “Baita” di Gazzo-Borghetto d’Arroscia, a “Delio” di Apricale, cioè l’Avrigue dei toccanti romanzi di Francesco Biamonti…
Mi perdonino davvero coloro che ho dimenticato, ma d’altronde un tour sentimentale non si prefigge la completezza, si accontenta di suggestioni (e di qualche nostalgia per chi non siede più al tavolo con noi). Vi aspetto come sempre qui su Ligucibario® per conoscere i vostri punti di vista, i vostri preziosi ricordi, e beninteso le vostre nostalgie.
God save the Italian cuisines and their brave chefs!
Umberto Curti
* I locali contrassegnati da asterisco sono per fortuna tuttora in attività, talvolta ovviamente con diversa gestione, o persino diversa ubicazione. Vista la natura della materia, sempre in divenire, sarò grato a chiunque voglia segnalarmi eventuali inesattezze da correggere!
Bellissimo articolo! Meriterebbe di essere pubblicato! Mi ha dato un po’ di nostalgia. Mi colpisce il fatto che ho conosciuto e provato quasi tutti i ristoranti che hai citato, tranne i veronesi il Cabiria e pochi altri, e ho concluso che vuol dire che sono “vecchio”. Avrei aggiunto “Il Sole” di Maleo.
Ciao
Nicola
Una parola per l’Ameglia di Mestre e il buon Dino Boscarato, mancato anche lui…A parte questo ottimo articolo, molto malinconico, quanti ricordi…