Etno-gastronomia, un neologismo che piace.
In effetti, che la cucina racconti la storia culturale di un popolo è acquisizione che ha preso piede in Italia dai tempi di “Gino” Veronelli e degli illuminati suoi pari, 50-60 anni fa, animando ricerche e dibattiti… In Liguria, fatte salve alcune pagine del Professor Rebora, poco si è prodotto.
Cucina come “convivio” tra genti: una comunità si nutre di quel che coltiva, rielabora, produce, ma anche di quel che acquista e apprende, e pare davvero superfluo sottolineare come la cucina genovese (ivi incluse le sue progressive “irradiazioni”) s’appoggi diacronicamente a Piazza Caricamento, luogo in cui affluiva ogni tipo di merce, talora top di gamma. La Superba, dominando le tratte mercantili, pian piano fu tale anche a tavola (pur senza mai barattare le frugalità col kitsch), si pensi alle frutta candite di cui siamo debitori al mondo arabo, al fastoso tacchino alla storiona (ricetta forse “giunta” dalla Stiria), finanche poi al cappon magro, che ha monumentalità quasi barocca rispetto ai piatti liguri più consueti…
Rotte, commerci, un genius loci che si svela al cospetto degli altri. V’è dunque una ricca famiglia di ingredienti, piatti o tradizioni che Genova e la Liguria mutuano da un altrove, o – per così dire – con un altrove spartiscono. Pietanze “comparate”, così mi piacerebbe intitolare un corso universitario, modificando ogni anno – beninteso – la parte monografica.
Salirebbero così al proscenio anzitutto sua maestà il pesto, che oltre il confine di Ventimiglia in parte s’affratella al pistou.
La salsa agliata, energia mediterranea, e nutraceutica, affine all’aioli, così come l’acciugata (da non confondere col m a c h e t t o) lo è all’anchoyade.
Il marò, che svela un lemma forse arabo, salsa al mortaio che non a caso impiega la menta e che non a caso s’accompagna (a Ponente) alla capra.
La bottarga, botarikh è l’ovario, ed il musciamme, mushamma’, ovvero filettini di pesce essiccato (un tempo era anche delfino), sorta di soppressa ittica piuttosto soda.
Le varie preparazioni in scabeccio (carpione), ancora una volta dall’arabo sikbag.
La farinata di ceci, ovvero la socca, la bela cauda, la cecìna, la calentita, street food che attraversa Paesi e continenti…
La piscialandrea, dal francese pissaladière (certo non da Andrea Doria), ovvero “torta” che fa uso di pesciolini salati.
Lo scuccusùn, ed è qui sin troppo chiara l’assonanza con uno dei piatti più importanti e “rituali” dell’area nostra dirimpettaia, anzitutto il Maghreb.
Il brandacujùn, attiguo alla brandade de morue, io lo prediligo di stoccafisso (più ligure?), non di baccalà (più francese?). Il ciuppin, zuppa di pesce che fa da “ponte” verso San Francisco in California. La buridda, di seppie ma non solo, il nostro stufato di mare più corposo, ed i gourmet sanno che il bourride di Provenza e Linguadoca rivaleggia con la bouillabaisse marsigliese.
La cima, non lontana dalla poitrine de veau farcie, petto di vitello farcito, e poi cotto al forno.
Le trippe, e qui si potrebbe organizzare un lungo tour non solo italiano tra interiora e fratteglie leggendo il mio “Il quarto numero cinque. Trippe, busecca, lampredotto…Storia e ricette”, ed. De Ferrari, Genova, 2014.
La rattatuia, ovvero la ratatouille.
Il pan di spagna, che tutto il mondo chiama significativamente pâte génoise, omaggiando quel Giovanni Cabona da Crocefieschi che la ideò, elegante e soffice, giunto coi Pallavicini alla corte di Spagna. Il pandolce, che suona “genoa cake” all over the world (sia lode all’anice). I biscotti di Garibaldi, gallette croccanti, con uvetta, molto diffuse da Newcastle a Londra, nate in onore di una visita dell’Eroe dei due mondi in Inghilterra (1854). La cubaita, dall’arabo qubbat, mandorle e altra frutta secca (secondo disponibilità) legate con miele dentro due cialde sottilissime. E le s-ciumette, albumi che la cucina francese – ça va sans dire – sa nobilitare col nome di îles flottantes…
Lascio alla tua curiosità, amico lettore, l’onere di cliccare sui link che per ogni voce in elenco ti condurranno verso il mio “alfabeto del gusto”, un forziere di circa 1.100 lemmi (forse già lo consulti) nel quale è raccontata (vent’anni di lavoro) tutta intera l’enogastronomia ligure. Pardon, l’etno-gastronomia…
Buon appetito!
Umberto Curti
20 gen 2021 | Pubblicato in Ligucibario
Genova e Liguria, i cibi “internazionali”
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