14 lug 2017  | Pubblicato in Ligucibario

Cibi di bordo, di porto e di orto

panissa!

panissa!

L’alimentazione si situa sempre in lineare dipendenza dai territori che una popolazione abita e dalle relazioni e commerci che intrattiene. Genova, in tal senso, “sconta” in bene e male la propria orografia, e l’ubicazione privilegiata (sin da epoca etrusca) sul Mediterraneo.
E’ difatti una cucina, quella di Genova e dintorni, che sagacemente integra i cibi di bordo, i cibi di porto e i cibi di orto, componendo un bouquet di ricette che non di rado primeggiano quanto a profumi e salubrità, ricette creative finanche quando frugali (un ossimoro che presumo sarebbe piaciuto a Giovanni Rebora), e sempre attuali. Quanto al mare, ad esso – è stato notato – i genovesi parlando riservano lo stesso suono di “male”, dunque svelando un rapporto ambivalente, di amore per un “link” diretto verso altri mondi, di timore per un “confine” talora pericoloso e poco prodigo di pescato…
Cibi di bordo…, la galletta, il pesce e i legumi secchi, la carne salata, le olive, qualche volta il miele e poco altro. I sacchi di gallette però, dopo un paio di mesi erano abitualmente infestati di vermi bianchicci (larve, “curculioni”…), e dai veneziani le briciole che residuavano in fondo erano dette spregiativamente “massamoro”, ovvero capaci di avvelenare anche un moro.
Quando gli equipaggi attraccavano a Genova, chiatte e grossi gozzi (i “cadrai”, la parola proviene da caterer) li tentavano, non a caso, anzitutto coi minestroni di verdura fresca.
I moli furono fondamentali per il check in degli alimenti scoperti nei Nuovi Mondi (scoperte che subito rivoluzionarono gran parte del menu locale), degli stoccafissi “incontrati” da Querini alle Lofoten, della frutta secca e disidratata – che progressivamente arricchì il semplice “pan döçe” della tradizione, quello beninteso lievitato con pasta madre – . Fra le frutta anche i fichi, tanto che lo spregiativo “cancarön” sembrerebbe, sottolineo sembrerebbe, derivare da una sorta di vino di fichi (carcaroun) giunto a Genova dalla Turchia, sebbene un vitigno cancarone sia anticamente segnalato a Valperga (TO)…
Cibi di porto…, l’angiporto, fiutando i business, si trapuntò di faïnotti, sciamadde, törtâe. I primi detenevano farine, ma la parola finì con l’indicare più genericamente il negozio di commestibili. Le seconde erano così dette in quanto una fiammata (sciamadda) ardeva sempre sotto pentole e teglie dei cibi in cottura. I terzi si specializzarono in torte di verdura, e certo non solo Pasqualine.
A pieno titolo dunque Genova può fregiarsi del titolo di “Superba” anche quanto a street food, questi magnifici cibi da piluccare ungendosi le dita, col naso all’insù per ammirare i palazzi dei centri storici che si contendevano spazio, le edicole votive, i bagliori azzurri dei cieli stretti fra ardesie.
Street food è un concetto assurto a moda, e di fatto ogni regione italiana vanta eccellenze peculiari, chi non ha mai sentito (o gustato) la piadina con lo squacquerone in Romagna, il semelle col lampredotto a Firenze, la ciriola con la porchetta a Roma, la vastedda ca meusa a Palermo?… Ma, a maggior ragione, la miglior forma di tutela di una tipicità oggi più che mai consiste nel promuoverla rispettandone i fondamenti, la miglior difesa consiste nel valorizzarla senza mai mai tradirla.
Duemila anni fa, come noto, la Liguria fu investita dalla romanizzazione (e nulla più che gli eventi storici si lega costantemente agli usi alimentari). I Romani in cucina abbondavano coi ceci, e viceversa non “praticavano” i fagioli, conoscendo solo la varietà cosiddetta dolica (dall’occhio), di provenienza africana. Di (farina di) ceci sono gli originari cuculli – non certo i frisciêu… – , così come la panissa che deriva da panìco, cereale poverissimo, ghiottoneria in insalata tanto quanto fritta, e come la farinata, la cui storia richiederebbe pagine e pagine, coinvolgendo mezzo Mediterraneo (Provenza Toscana Corsica Sardegna Gibilterra Marocco…) e il poeta scapigliato Olindo Guerrini alias Lorenzo Stecchetti che la divorava in un’osteria di piazza Ponticello. Coi ceci a Genova si prepara anche lo squisito zimino, parola – guarda caso – araba al pari di buridda, et caetera et caetera. Chi vorrà cimentarsi con le etimologie della gastronomia ligure (quasi tutte precisate qui su Ligucibario nella sezione “alfabeto del gusto”) sarà premiato con moltissime sorprese, che confermano questa costa cosmopolita, alacre, interculturale. Ma la panissa si preparava anche di gasce (cioè cicerchie), ammorbidita con patate lesse schiacciate, le cicerchie sono state via via abbandonate soprattutto a causa del latirismo, disturbo agli arti inferiori cui si era esposti in caso di abbondante consumo. Ed anche arricchita di granella di nocciole (dono di Leivi e Mezzanego…), sfiziosissima con le trigliette, abbinando certamente un vino bianco, magari la Bianchetta DOC valpolceverasca o tigullina, o una birra artigianale, una lager o pils.
Cibi di orto infine…, là dove ai coltivi autoctoni, in una terra penalizzata da inesistenti pianure, si affiancarono, come detto, le scoperte dai Nuovi Mondi, benché – a puro titolo d’esempio – la patata rappresentò per due secoli oggetto di diffidenza (ipogea ergo diabolica? ergo velenosa?), e solo le omelie d’un prete-agronomo della Fontanabuona, Padre Dondero, valsero a sdoganarle nell’immaginario collettivo prima ancora che nei campi. Dalle Americhe giunsero in Italia un poco alla volta pomodori, zucche e zucchini, fagioli e fagiolini, peperoni e peperoncini, mais…, e quelle fave di cacao che i maîtres-chocolatiers più avveduti iniziarono a sperimentare, con esiti sempre più seducenti, in pasticceria.
Ma la Liguria e il Genovesato si confermano ancora, e prima di tutto, patrie del preböggiön, qui non mi sembra il caso di scomodare Goffredo di Buglione e una leggenda che propone troppi tratti d’inverosimiglianza, bensì di anteporle il calore dei tanti muretti a secco, e perciò una sbalorditiva varietà di piante (quasi sempre alimurgiche, “pimpinella erba forte salva l’uomo dalla morte”), che selezionate e mixate con saggezza fanno la gloria dei pansoti più ricchi, quelli nei quali, lodevolmente, non scompare la prescinsêua, ma qui occorrerebbe dedicare un capitolo anche alla pastorizia e alla cagliata, altro esempio rurale di frugalità sagace, e lo spazio tiranneggia, sarà per la prossima volta.
Umberto Curti

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