Gino Veronelli, ch’ebbi il privilegio di conoscere, esortava a “camminare le osterie” per comprendere l’animo profondo dell’Italia, quella dei mille campanili, dei borghi, delle cucine tradizionali, dei contadini e dei pescatori che ostinatamente presidiano campi e coste… Esortazione che presumo sarebbe piaciuta anche a Mario Soldati, Paolo Monelli, coloro che di fatto inventarono una “disciplina”, quella della cronaca e critica enogastronomica, grazie a cui si diffusero riviste, guide, convegni e premi…
Ho affermato, e continuamente riaffermo, che la cucina italiana (benché sia la più famosa al mondo) non esiste, nel senso che esistono 20 o più gloriose cucine regionali/locali, diverse tra loro perché diverso è l’habitat che le ospita e diversa è la storia che le ha precedute (clima, biodiversità, dominazioni, commerci, forme sociali, stili di vita…).
Oggi che tanto si parla – talora si ciarla? – di turismo esperienziale, mi piace riunire gli aspetti che ho appena tratteggiato in quell’espressione ampia che è “genius loci” (la nostra identità, la nostra natura più autentica) e che molto mondo ci “invidia” e desidera scoprire. Il cibo in tal senso giocherà un ruolo sempre più centrale nell’attrazione di turismo in entrata, un turismo curioso, consapevole, slow, qualificato, gourmet…
L’Italia (lunga vita malgrado tutto a questa nostra madre a volte un po’ matrigna…) è la terra, non a caso una lunga penisola, della soepa valpellinense, dei tajarin, della cassoeula, dei risi e bisi, dei canederli, del frico, del ciuppin, della salama da sugo, del lampredotto, dei vincisgrassi, degli arrosticini, della norcineria umbra, dell’abbacchio, dei malloreddus, della pizza, della ciambotta, delle orecchiette alle cime di rapa, dei peperoni cruschi, del morzeddu, della vastedda ca’ meusa… Ogni territorio un vino da abbinare, un olio da accostare, un magnifico rito da svelare, da narrare, da condividere.
Mi chiedo dunque, senza alcun fine sciovinistico: già molto lessico gastronomico “originò” – per evidenti ragioni – dalla Francia, terra di grandi chef che seppero anche metter mano alla penna con ricettari e trattati, e sta bene. Ma perché, cocciutamente, svendere le parole del cucinare italiano a favore di terminologia quasi sempre inglese, e quasi sempre algida? Scimmiottare, ove non ve ne sia bisogno (quando ve ne sarebbe?), è purtroppo la strada migliore per non posizionare le nostre risorse, le nostre espressioni, le nostre sapienze. Per “subordinarle” a quelle altrui.
Perché ricorrere a texture quando il nostro dizionario propone consistenza? Lezione di cucina non suona meglio di masterclass? Il condimento è oramai sempre topping? Come mai il panificatore cuce “baker” sulla propria divisa da lavoro? Davvero tasting deve sostituire degustazione? Data di scadenza non andrebbe preferita a shelf-life?
E gluten free, e chips, e blend…. Mi fermo qui, che ne dite? La trovate una battaglia di retroguardia?
Scignuria (ma i miei antenati paterni, fra Torino e Alessandria, direi che avrebbero concluso con arvëddse e cerea).
Umberto Curti