12 ott 2021  | Pubblicato in Ligucibario

Anche a Genova i cibi “colombiani”

DSCN0928Genova ha con Cristoforo Colombo (1451-1506), come noto, un legame del tutto particolare (anche se innumerevoli altri luoghi le contendono i natali di costui, in primis Cogoleto). E si può dire che la stessa vocazione turistica cittadina sia nata in coincidenza con le celebrazioni del 1992, le quali produssero il recupero del porto antico, iniziarono a rendere più attrattiva la destinazione, e contribuirono ad accendere qualche sensibilità sin lì troppo sopita…

Anche quest’anno, in occasione dell’anniversario della scoperta dell’America, la Superba celebra il “proprio” esploratore con una serie di eventi (https://www.visitgenoa.it/genovapercolombo ). Sarebbe risultato interessante, a mio parere, includere nel programma anche uno o più speech sulle conseguenze commerciali e agro-gastronomiche che via via quella scoperta produsse nelle quotidianità del Vecchio Mondo. Intendo dire che, in un’ottica anzitutto legoffiana, sia l’econometria sia le “storie minute” concorrono ad integrare il quadro della ricerca storica, tanto più quand’essa si confronta – come nel caso colombiano – con eventi che hanno trasformato, day by day, i destini di molta umanità.

Gli sbarchi europei nell’America centro-meridionale permisero infatti di conoscere una biodiversità naturale e culturale sbalorditiva, e se quell’incontro tra uomini diversi non fosse rapidamente e tragicamente degenerato in scontro, oggi potremmo ricostruire – si sa – vicende altre e ben migliori.

Va tuttavia sottolineato che dal Cinquecento – malgrado l’ossessione primaria dei vari Conquistadores per oro, argento e spezie – giunsero progressivamente sui nostri orti, mercati e tavoli alcuni alimenti destinati a grande successo, tanto che oggi la stessa “dieta mediterranea”, così come ovviamente la cucina ligure, ne fa talora largo impiego: pomodori, patate, mais, peperoni e peperoncini, fagioli (i Romani consumavano solo i “dolici” con l’occhiolino), nuove tipologie di zucche, incredibili tacchini

Ma si “scoprirono” anche – a puro titolo d’esempio – il cacao, l’avocado, il mango, la papaya, l’ananas, la vaniglia, l’arachide, il fico d’India (che malgrado il nome è autoctono del Messico)… Ai pasticceri e chocolatiers si spalancarono orizzonti impensabili.

Il grandioso scambio, sebbene alcuni prodotti (patate, pomodori) non venissero subito accettati, elargì quindi fondamentali risorse alimentari e – quanto a “fonti” – allargò gradualmente gli stock naturali tramite un geo-trasloco agronomico dei prodotti.

Dall’anno Mille sino a metà Trecento un po’ tutta l’Europa occidentale fu teatro d’una notevole crescita demografica, e aumentò la speranza di vita media grazie anzitutto ai progressi agricoli (derivanti da quel ‘periodo caldo medievale’ che di fatto per 4-5 secoli alzò il limite nord della coltivazione cerealicola), ai prosciugamenti di terreni, al diffondersi dei mulini, e grazie all’introduzione dell’aratro a versoio, il versoio è un dispositivo collegato al vomere e rivolta la terra appena lesionata dal vomere medesimo. Tra anno Mille e Trecento l’Europa “triplicò”, da 23 milioni a circa 70 milioni di abitanti. Si consolidarono forme migliori di feudalesimo, aprirono i battenti varie Università.

Ovviamente le coltivazioni cerealicole erano differenziate nei diversi territori; nei Paesi del nord il frumento coabitava con la segale e l’avena, mentre nel sud con orzo, miglio e farro-spelta (e le Alpi tuttora “separano” l’areale del vino da quello della birra). I cereali sino ad allora noti/coltivati erano peraltro, sia per la conservabilità sia per l’elevata sazietà che generano, cibo fondamentale fin dai tempi dell’uomo (e dell’impero) romano. I carboidrati (zuccheri + amido) infatti garantivano – ieri come oggi – 4 calorie per grammo…

Ma ai tempi di Colombo quella performance europea era in fase già alquanto declinante per via di tante e catastrofiche epidemie (si pensi alla peste nera “boccaccesca” del 1348) e per via, ad inizio Quattrocento, della cosiddetta ‘piccola era glaciale’, la quale colse tutti di sorpresa e a propria volta indusse carestie (aggravate dalle molte guerre coeve). Black death è espressione luttuosamente sopravvissuta su molte bocche. Il cibo diminuì, peggiorò l’igiene, aumentarono aborti e mortalità infantile. L’abuso di cicerchie produceva regolarmente latirismo, una grave patologia degli arti inferiori. Gli equipaggi delle navi venivano puntualmente decimati dallo scorbuto.

Erano secoli di basse difese immunitarie (e la monodieta a base di mais causerà atroci deflagrazioni di pellagra…), sulla tavola presenziavano il pane in cento forme ed impieghi e poco altro, semplici pietanze a base di cereali o legumi (anzitutto ceci, fave e lenticchie), imbanditi in polente o zuppe calde e corroboranti, così soprattutto da “mixare” proteine, dato che disporre di carni era evento miracoloso: soltanto specifiche ricorrenze o celebrazioni infatti consentivano carne (suina, ovina o di animali da cortile) e talvolta cacciagione, di frodo in quanto la caccia come attività/arte era appannaggio esclusivo delle classi patrizie.

I “condimenti” consistevano – secondo àmbiti geografici – in sale, olio, burro, lardo, strutto, talora barattati fra loro, e dove si stabulava bestiame facevano capolino le proteine e i grassi dei formaggi (ovviamente stagionati, dato che la catena del freddo non compariva neppur sui più lontani orizzonti). Occasionalmente ecco poi il pesce d’acqua dolce o marino, di solito, ça va sans dire, essiccato, affumicato, salato… Il naufragio del veneziano Querini alle isole Lofoten (1432) introdusse tuttavia anche in Italia il gadus morhua, un merluzzide, sotto forma di stoccafisso essiccato o baccalà salato, e fu boom immediato.

Nelle cucine popolari, dove le costose spezie mai accedevano, le donne, dato che il Medioevo fu più matriarcale di quanto si creda, aromatizzavano un po’ tutti i cibi con erbe coltivate o spontanee, e dolcificavano col miele, uno dei doni del bosco (lo zucchero di canna – dalla cannamela “musulmana” – originava in modeste quantità solo dall’Andalusia e dalla Sicilia, “insula dulcis”). Il resto era frutta, e molti documenti comprovano che nel Medioevo, presso le classi meno disagiate, venivano tradizionalmente prodotte versatili confetture e composte, facendo tesoro dell’esperienza romana e con un metodo davvero poco dissimile da quello attuale.

Ma…«a peste, fame et bello libera nos Domine», la secolare scansione liturgica, divenuta uso popolare, si diffuse per secoli di bocca in bocca.

Umberto Curti
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