Occorrerebbero pagine e pagine per raccontarti una vicenda enologica che è vanto della Liguria e che affonda le proprie radici ben in profondità nel tempo. Vini delle Cinque Terre: e già i nomi agiscono nel tuo immaginario, proiettandoti in un paesaggio di vigne verticali, di eroici terrazzamenti a picco sul mare, di fasce verdi ormai millenarie risalite da monorotaie e protette dai celebri muretti a secco, se la Liguria li mettesse tutti in fila supererebbero per lunghezza la Muraglia Cinese… Scrive Monsignor Giustiniani nel 1535 descrivendo il territorio: “tanto erto e sassoso che non solamente è disagevole alle capre montarvi, ma quasi difficoltoso al volar degli uccelli: arido e secco e nondimeno tutto pieno di fruttifere vigne alle vendemmie delle quali, in qualche luogo, conviene che gli uomini si calino dalle rupi legati per mezzo di una corda”.
Vini delle Cinque Terre: Monterosso, Vernazza Corniglia Manarola Riomaggiore ed una piccola porzione della Spezia (Tramonti di Campiglia e Tramonti di Biassa), tante piccole aziende, come ovunque traversando la regione, dove quasi mai le case vinicole superano le 100mila bottiglie prodotte. Qui sono vini bianchi e passiti * che la DOC tutela e qualifica dal 1973 (in Liguria è DOC circa un terzo degli ettari vitati). Ai tempi di Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio si chiamavano “razzesi”, così come “pastini” (dal latino pastinum) erano i minimali spazi pianeggianti lavorati a zappa per rendere il terreno più praticabile. Ce lo racconta il giornalista e gastronomo modenese Paolo Monelli (1891-1984), ghiottone errante ed optimus potor – così si autodefiniva – cui si deve fra l’altro l’azzeccato toponimo “Via dell’Amore” a siglare quella magica passeggiata di 900 metri, che va da Riomaggiore a Manarola, “in bilico” sulla scogliera…
Le uve sono i vitigni bosco, albarola (uva neutra che matura precocemente) ** e vermentino (i vitigni andrebbero scritti con la minuscola). Quest’ultimo è uno dei simboli della viticoltura ligure, il nome è genovese ma lo chiamano favorita in Piemonte e malvasia Grossa in Corsica e nei Pirenei orientali. Tali uve vengono lavorate soltanto nell’area contestuale, d’origine/produzione, prevalentemente “in bianco” (fermenta il solo succo) o “tradizionalmente” (fermentano le uve pigiate e diraspate). Per apprezzarne al meglio i colori paglierini con riverberi verdolini, gli odori erbacei e salmastri e i sapori secchi e persistenti occorre consumare i vini giovani, non oltre 1 anno dalla data della vendemmia, magari accompagnandoli al tegame d’acciughe locali, alla mes-ciùa di legumi e grano duro, ai pesci cucinati al verde, alle fritturine.
La gradazione va dai 12 gradi sino ai 17 dello Sciacchetrà, quest’ultimo fermenta a lungo il proprio mosto zuccherino (una quarantina di giorni) dentro barilotti chiamati caratelli. Ha colori che si dorano e s’ambrano, odori che via via regalano albicocca, mela, pesca, sapori ben mielati, non stucchevoli, ricchi di calore, persistenti, morbidi. Lo Sciacchetrà si mesce dal primo novembre dell’anno che segue la vendemmia, e dopo tre anni la tipologia “Riserva”. Esistono peraltro eccellenti casi di bottiglie financo trentennali. Lo gusti al meglio delle sue possibilità in piccoli “tulipani”, 7-9 gradi la temperatura di servizio, abbinando dolci non lievitati, pandolci bassi e panforti (conservane una fetta per il 3 febbraio, San Biagio protettore della gola), spongate “lunigiane” – natalizie – *** e cubaite del Ponente…
*non confondere lo Sciacchetrà con lo Sciac-trà, che è Ormeasco di Pornassio rosato (altra DOC di Liguria), ovvero dolcetto.
**uno dei suoi sinonimi è calcatella di Sarzana.
***ne accennò già Ovidio (43 aC – 17 o 18 dC), celebre poeta di corte, che a causa di uno scandalo concluse i propri giorni in esilio a Tomi, sul Mar Nero, componendo i “Tristia” e le “Epistulae ex Ponto”. Non sempre la curiosità e la mondanità… pàgano.
Umberto Curti