19 mag 2020  | Pubblicato in Ligucibario

A tavola con Eugenio Montale

galantina

galantina

“Che la pesca e i viaggi fossero, certamente, le quasi sole occupazioni degli uomini è un fatto che spiega i caratteri della cucina ligure. Di conseguenza, è una cucina per gli assenti, insomma per quelli che torneranno e che tornando (non si sa tra quanti giorni) dovevano trovare “in dispensa” qualche cosa da mangiare. Perciò questa è l’origine dei meravigliosi piatti freddi. La cima ripiena, la torta pasqualina… Sicuramente innumerevoli altri ripieni (di zucchini, di melanzane, di sardine, di cavoli), i sott’aceti, i sott’olio. Infine i funghi “in addobbo”, in pratica tutte cibarie che non hanno nulla da perdere se il loro ipotetico consumatore non è ancora apparso all’orizzonte. Unica eccezione: la panizza (di farina di ceci), che dovrebbe esser divorata caldissima, prima che giunga a tavola”.
E’ una citazione montaliana nell’introvabile volume dedicato al vedutista parigino Eugène Cicéri (1813-1890) “Paesaggi della Riviera di Levante. Il Banco di Chiavari e della Riviera Ligure nella ricorrenza dei primi cento anni della sua vita” (ed. Valdonega, 1970).
Essa svela non tanto, e non solo, il penchant del poeta genovese per la gastronomia ligure, quanto e ancor più i fondamenti “genetici” di un ricettario per persone sovente distanti, poiché use guadagnarsi frugalmente (ad es. con la pesca) il necessario per vivere, e di una gastronomia ora endogena e “semplice” (la panissa…) ed ora più cosmopolita e geniale (lo stoccafisso…).
Ma altrove peraltro, confessandosi autobiograficamente, Eugenio Montale è schietto nel definirsi ghiottone, una debolezza (per lui poeta della decenza e della sobrietà) che lo predestinerà al girone dantesco dei golosi: “Nacqui lurco, mi adusai alla voragine del gargarozzo (mi giustifico sempre coi gelati di Giacomino); numerosi Sapienti mi predissero il Terzo Cerchio. Candida Gina, la Musa al liminare mi salverà per il rotto della cuffia. Eugenio Montale goloso come Leopardi”. Non ricordo dove l’ho letto, ma mi pare che Montale adorasse poi anche, in particolare, il bollito misto, condito con sale grosso e olio di noci, una raffinatezza da bonvivant consapevoli. Quanto al basilico, re del pesto, affermò – forse con affetto municipalistico – che quello giusto cresce in una latta sui tetti d’ardesia della vecchia Genova.
Può quasi sorprendere, o forse ormai no, ma era stato proprio lui, il 21 novembre 1964, in una libreria (l’Einaudi in corso Manzoni 40) di Milano, a gestire una causerie – ovvero una conversazione “leggera” – per l’uscita di un ricettario, “La cucina di Falstaff”, del noto gastronomo abruzzese Vincenzo Buonassisi. Altri tempi, altre stature, altre dimensioni.
Non è questa la sede per ripercorrere gli innumerevoli e strettissimi legami che saldano la figura e l’opera di Montale al territorio delle Cinque Terre, a Monterosso e Punta Mesco in particolare. Alla mediterraneità, alla “pagoda giallognola”, come soprannominava la villa liberty di famiglia (la villa delle due palme). Altri, e bene, l’hanno già ripercorsi. Ma mi spingo a sospettare che non sarebbe verosimilmente potuta esistere la sua lirica senza il costante riferimento a quelle coste scabre dove si fossilizzano gli ossi di seppia, a quelle fasce verticali terrazzate dai muretti a secco, quegli orti assolati fin quasi all’aridità, quei muri che i cocci aguzzi di bottiglia rendono invalicabili.
Ed è non a caso, quell’incredibile pentaborgo di case-torri aggrappate dinanzi al mare, uno dei luoghi per eccellenza della viticoltura eroica, e Montale in “Prose e racconti” allude ad un passito (a bacca nera) affine per struttura allo Sciacchetrà, ma di cui sentenzia “…il tipo classico, bevuto sul posto, autentico, al cento per cento, supera di gran lunga quel farmaceutico vino di Porto che ebbe larga fortuna in Inghilterra dopo la grandezza e la decadenza del Marsala”.
Sono anche le Cinque Terre – beninteso – delle acciughe salate, delle lampare estive, delle arbanelle colmate a strati e pressate in cima da un disco d’ardesia, dei riti millenari, delle violente mareggiate, di qualche ulivo. E delle limonaie cariche di limoni, ottimi per la marmellata da crostate dolci, così gialli che, per un attimo, “…il gelo del cuore si sfa, e in petto ci scrosciano le loro canzoni le trombe d’oro della solarità”.
Ed infine, nella tarda e struggente “Al mare (o quasi)”, là dove Montale tratteggia, da un osservatorio apparentemente balneare e periferico, i rapidi mutamenti involutivi di un mondo intero (“…le ville furono costruite dai padri ma i figli non le hanno volute”) e soprattutto l’affermarsi della precarietà come definitiva condizione umana, recuperiamo anche un cenno ai pinoli, indispensabili per la galantina, uno dei piatti più eleganti, e natalizi, (anche) all’ombra della Lanterna.
In un pezzo del 1968, “Genova nei ricordi di un esule” (prefazione al volume “Genua urbs maritima”, a cura delle Pubbliche Relazioni Italsider), così Montale omaggia la sua città natia: “Quando io venni al mondo Genova era una delle più belle e tipiche città italiane. Aveva un centro storico ben conservato e tale da conferirle un posto di privilegio tra le “villes d’art” del mondo; una circonvallazione più moderna dalla quale il mare dei tetti grigi d’ardesia lasciava allo scoperto incomparabili giardini pensili; e a partire dalla regale via del centro una ragnatela di carruggi che giungeva fino al porto”.
E scrisse, di sé ma non solo, una trentina d’anni dopo Fabrizio De André: “Genova. Che cosa significa per me? Ho avuto la fortuna di nascere in questa etnia, in questo piccolo mondo dove si parla una lingua diversa, che faceva parte di uno stato molto più grande ma con un idioma, una cucina, una cultura autonomi. Questo ti fa sentire così vicino a queste persone che condividono la tua diversità, ti senti a tua volta differente dal resto del mondo, sei membro di una grande famiglia di settecentomila persone che ha usi e costumi tutti suoi”.
Oggi che, anche a proposito di turismo esperienziale, si sottolineano molto i valori del cosiddetto “genius loci”, ti paiono – amico lettore – consonanze solo apparenti?
Umberto Curti
umberto curtiLigucibario mindmap PNG

 

 

Commenta