28 set 2017  | Pubblicato in Ligucibario

6 olive in cerca d’autore all’Azzurrodue di Arenzano

cultivar di olive

cultivar di olive

 

 

 

 

 

 

Da sinistra nella foto la cilena Azapa, la spagnola Coquillo, le greche Kalamata e Athinolia, le italiane Leccino e (sua maestà) Taggiasca.
Accadono (Deogratias) anche queste cose, e queste degustazioni, all’Azzurrodue di Arenzano, una sera di settembre, luogo e buen retiro dove su tutti i tavoli troneggia il DOP Roi di Badalucco…
Accadono queste cose all’Azzurrodue prima di un pesto divenuto via via perfetto, che può pienamente fregiarsi del titolo di ‘pesto’, rendendo un nobile servigio alla più famosa (e spesso maldestramente imitata) salsa ligure, ed appagando la clientela con 5 ingredienti che si saldano attorno allo scheletro aglio-pecorino sardo (il pesto origina dalla brutale aggiadda, e la Repubblica di Genova intratteneva stabili relazioni commerciali con la Sardegna). Un pesto, scrivevo, divenuto via via perfetto. Non nel senso di realizzare la chissàpoiquale ricetta originale ed assoluta (non ne esistono), bensì di valorizzare al meglio ciò che natura e mercato regalano in quel momento/stagione, ovvero quell’aglio, quei pinoli, quel basilico, quel Parmigiano DOP, quel Fiore sardo DOP e quell’extravergine, senza dimenticare il sale grosso, là dove non è affatto vero che uno valga l’altro, e a me garba marino. Alla fine tu assaporerai un pesto perfettamente bilanciato, anche se – amico gourmet, amico turista… – noi Zeneixi lo pretendiamo e costruiamo pungente, oltre che aromatico, e così, orgogliosamente, te lo imponiamo.
Accadono queste minime ampie cose all’Azzurrodue, grazie ad Angela, Tony e Mina, dato che un ristorante si rende attraente soprattutto, e lo so bene, per la materia prima che acquista e che non devasta, ma anche, e lo dico a piena voce, per i dettagli, mai trascurare i dettagli, il cioccolatino di benvenuto sul cuscino della stanza, le salviette dopo il pesce…
E l’extravergine all’Azzurrodue abita al centro, davanti alle onde di Arenzano, è la nostra mediterraneità primeva (da Tucidide a Columella), olio e non burro, più grano che segale, più vino che birra, più ovini che bovini.
Olive da olio, olive da mensa, olive da olio e da mensa, una religione – dall’Asia Minore a Taggia – resa ancor più attuale dalla nutraceutica, che non a caso situa l’extravergine tra gli alimenti-farmaco. Quanto mi sentirei felice se, tra le 42 varietà della Liguria a me note, venissero “riscoperte” anche quelle che, per una ragione o l’altra (fragilità, basse rese…), furono via via dismesse, dalla Benini alla “Spagnola” di Missano, e perfino quella colombaia “retrocessa” a mero innesto per la taggiasca. Non si potrebbe immaginare dono migliore, in termini di biodiversità, alla causa della conoscenza, e custodire conoscenza aiuta a custodire gastronomia.
Ho seguito di recente un seminario sul social media marketing (l’espressione è già un filo respingente) applicato alla ristorazione, tenuto da una consulente preparata ed affabile. Ne sono uscito frastornato e perplesso. Per tre ore non ho udito nulla che, di fatto, davvero pertenesse all’enogastronomia, alle regionalità, ai campanili e agli odori della memoria. E’ la comunicazione, bellezza!, mi ammonirebbero i web manager, sono le strategie di un’interazione sempre più frettolosa, usaegetta, superficiale, frenetica… Algida come un incessante rumore di fondo che infine, temo, genera solitudini.
Sottovoce, provocatoriamente, mi e vi domando: forse che l’indimenticato e indimenticabile Gino Veronelli, ch’ebbi l’onore di conoscere, e che predicava di “camminare le campagne, le osterie, le cantine” per ascoltare e comprendere le vere identità e risorse del nostro Paese, non ci esorterebbe, ormai, ad un po’ di realtà diminuita, anziché aumentata? Ad un po’ di silenzio, lasciando (ri)parlare – anzitutto – la tavola e i calici?
Ma sono le olive – e il mare dinnanzi – ad indurmi certe bizzarre riflessioni. Accadono queste cose all’Azzurrodue di Arenzano, tutta colpa di Angela, Tony e Mina.
Umberto Curti

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